Le arrabbiature di Paul Ekman

 

La storia che mi accingo a raccontarvi ha tre protagonisti: Paul Ekman (con la figlia), il Mind and Life Institute ed il Dalai Lama.

Paul Ekman, direttore dello Human Interaction Laboratory dell’Università di California, è uno scienziato generalmente tenuto in grande considerazione: definito dall’ American Psychological Association uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo, ha dedicato la propria attività allo studio delle emozioni e della loro espressione.

Le sue ricerche portano alla conclusione che il modo di esprimere le emozioni non deriva dalla cultura di appartenenza ma è determinato biologicamente ed è analogo in tutti gli uomini, come ipotizzò molti anni fa Charles Darwin.

Paul Ekman, dopo un’infanzia ed un’adolescenza segnate da gravi conflitti con il padre culminati nell’abbandono della famiglia dopo l’ennesima aggressione paterna, divenne un uomo iracondo. Secondo quanto egli stesso racconta, la sua vita era resa intollerabile, tanto per lui quanto per le persone che lo circondavano, dalle quasi quotidiane esplosioni di un’ira furiosa che s’impadroniva di lui abbattendosi con omerica veemenza sui suoi malcapitati interlocutori.

Il Mind and Life Insitute è un’organizzazione, fondata nel 1985, che si propone si mettere in contatto la scienza occidentale ed il Buddhismo. Promuove incontri ai quali partecipano eminenti scienziati, esponenti buddhisti di spicco e, in prima persona, il Dalai Lama. L’obiettivo degli incontri è duplice: da una parte, portare la tradizione buddhista a conoscenza dello stato dell’arte della ricerca scientifica e confrontarcisi, modificando dove necessario le vedute incompatibili con le conclusioni della scienza (né a me né agli illustri personaggi dei quali vi sto parlando sfugge che il termine conclusione richieda più di un chiarimento); dall’altra, mettere a disposizione della comunità degli scienziati il vastissimo patrimonio di conoscenza sulla mente e sugli stati di coscienza che il mondo buddhista ha accumulato in venticinque secoli di esperienza meditativa, nonché le molte e profonde riflessioni filosofiche condotte nello stesso arco di tempo.

Nell’anno 2000 a Dharamsala, sede indiana del governo tibetano in esilio e residenza del Dalai Lama, ebbe luogo uno di questi incontri, sul tema delle emozioni distruttive. Al convegno fu invitato, come avrete intuito, Paul Ekman, con l’incarico di presentare la concezione darwiniana delle emozioni. Il nostro iracondo scienziato, scettico in materia di religione, non era molto interessato a partecipare all’evento; qui intervenne però la coprotagonista, Eve, la sua quindicenne figlia che aveva un grandissimo desiderio di conoscere di persona il Dalai Lama e caldeggiò la partecipazione. Inoltre, all’incontro era prevista la presenza di Richard Davidson, collega e vecchio amico di Ekman. E così, padre e figlia si misero in viaggio alla volta dell’India.

Durante una delle pause tra le discussioni, Paul, la figlia ed il Dalai Lama si trovarono di fronte. Eve fece una domanda (sul tema dell’ira) alla quale il Dalai Lama rispose in una decina di minuti, tenendo una mano del padre in una delle sue mentre parlava.

Ancora oggi Paul Ekman si chiede che cosa possa essere accaduto in quei dieci minuti, e non cessa di elaborare teorie che possano spiegarlo (senza, beninteso, far ricorso ad alcunché di soprannaturale).

Dopo quel colloquio, il nostro intrattabile amico ha improvvisamente smesso di arrabbiarsi. Familiari e colleghi raccontano unanimemente stupefatti questa radicale trasformazione.

Paul, dal canto suo, dice di aver provato durante il breve incontro una sensazione del tutto sconosciuta, qualcosa come una percezione fisica della “bontà” – accontentiamoci, per il momento, di questo generico sostantivo – del suo interlocutore che si irradiava verso di lui.

Vorrei fare qualche considerazione su questa storia, alla quale ho sommariamente accennato e sulla quale c’è molto altro da raccontare (e – non v’illudete – vi racconterò!).

In primo luogo, risulta evidente la falsità del comune assunto secondo il quale “le persone non cambiano mai”. Le persone possono cambiare, ed anche in modo radicale. Quello di Ekman è solo un piccolo esempio, ma il meccanismo che scatena la collera è radicato, ed a molti si presenta come inarrestabile. Eppure, in questo caso sono bastati pochi minuti per disarticolarlo dopo cinquanta anni di conferme e rafforzamenti. È vero che questo è avvenuto in presenza di una persona nettamente fuori dell’ordinario, che è stata all’origine di molte altre vicende analoghe. È però altrettanto vero che, se la trasformazione è avvenuta, questo vuol dire che era possibile, che nascosti tra i neuroni del professor Ekman c’erano i “fattori” (chiamiamoli così, in modo puramente funzionale, non sapendo di che cosa si tratti) in grado di produrre il cambiamento.

Vorrei poi sottolineare il ruolo prezioso delle persone che, come in questo caso il Dalai Lama, hanno dedicato la propria vita al raggiungimento ed alla diffusione di uno stato di coscienza superiore. C’è un frequentatissimo luogo comune secondo il quale i buddhisti, ed in genere le persone dedite a pratiche meditative, si isolano in una loro realtà personale, diventando indifferenti alla sofferenza degli altri. Mi è capitato pochi giorni fa di leggere una battuta che sosteneva appunto questo in un libro di una scrittrice che apprezzo molto, Alicia Giménez-Bartlett, donna di cultura elevata, docente universitaria e scrittrice di grande successo (El silencio de los claustros). Eppure, questa concezione dimostra la profonda ignoranza che regna in Occidente sulla cultura orientale. Nulla è più lontano dal vero. Il buddhista felice, capace di chiudersi in meditazione per ore provando gioie sconosciute ai più, è proprio colui che sa riconoscere ed alleviare, a volte solo con uno sguardo, una parola o il contatto di una mano, il dolore altrui. Uno dei suoi modelli ideali è quello del “bodhisattva”, l’uomo che avendo raggiunto il grado più alto di beatitudine lo lascia, per ritornare purificato in mezzo agli altri che soffrono, e trasmettere loro ciò che ha faticosamente conquistato.

Ma adesso, per non farvi arrabbiare, mi fermo e vi do appuntamento alla prossima puntata.

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Un uomo felice – 3

 

(segue Un uomo felice – 2)

Oggi comincerò a raccontarvi quello che ho scoperto partendo dalla lettura di Plaidoyer pour le bonheur (di questo libro esiste anche una traduzione italiana, Il gusto di essere felici, editore Sperling Kupfer).

Si tratta di una scoperta che credo possa interessare non solo per il suo contenuto, ma anche per il modo nel quale è avvenuta, e fornire spunti di riflessione su come idee, convinzioni e decisioni entrino nella nostra mente.

Quando ho iniziato la lettura ignoravo pressoché tutto del Buddhismo. Avevo letto qualche pagina di introduzione generale, che metteva insieme approssimativi concetti senza trasmettere nulla dell’essenziale. Molti di noi hanno sperimentato la differenza tra la sommaria trattazione enciclopedica di un argomento fatta in modo astratto, concettuale e sintetico e quella fatta da chi conosce a fondo, vive e sente un argomento. Il mio professore di latino e greco del liceo era innamorato di Catullo e ne aveva una conoscenza profonda. Un giorno si lanciò in una carrellata di un’intera ora sui suoi versi, alternando la recitazione (a memoria, ovviamente) alle considerazioni e spiegazioni sulla sua bellezza. Rimasi incantato, e da allora quei versi hanno avuto per me un significato radicalmente diverso da quello che può trovare chi è stato sottoposto a pedanti dissertazioni sui metri, vuote disquisizioni sui contenuti e letture stentate ed incomprese.

Analogamente, leggere le parole di un uomo che ha trasformato se stesso cambiando radicalmente vita ed ha raggiunto uno stato di felicità che le nostre comuni ambizioni non possono neppure farci sfiorare può lasciare una traccia, mentre non vedo come possa farlo un dettagliato saggio da manuale.

Ciò premesso, l’oggetto del libro non è il Buddhismo ma quella “cosa” elusiva e per molti illusoria che è la felicità. Il fatto è che il Buddhismo, come non tutti sanno dalle nostre parti, nasce dalla riflessione sulla sofferenza e sul modo di evitarla; e nasce non da una rivelazione ma dall’ esperienza personale di un uomo, chiamato appunto il Buddha. Quest’ uomo non ha pensato né dichiarato di essere stato illuminato, eletto o generato da una divinità. Si è interrogato sulla sofferenza umana, ed ha pensato molto. Non ha pensato come si pensa in occidente, in modo esclusivamente o prevalentemente logico e discorsivo. Ha acuito invece la concentrazione per poi dirigerla verso la percezione delle verità che costituiscono il fondamento della sofferenza e del suo superamento. Si è trasformato attraverso questa esperienza ed ha compreso che si può raggiungere una visione delle cose nella quale la sofferenza cessa di esistere, e si è dedicato ad insegnarla agli altri.

Considero le parole di Matthieu Ricard non solo una lezione ma anche una testimonianza. Il suo racconto illustra princìpi e ragioni che spingono a modificare le proprie abitudini mentali, ma cita anche casi, alcuni dei quali autobiografici, nei quali questo processo è avvenuto. Descrive esperimenti e ricerche che confermano la validità degli assunti. Il Buddhismo non è solo una filosofia, ma anche una pratica. Né la sola teoria né la sola pratica possono condurre al risultato, ed entrambe sono rigorosamente basate sull’esperienza. Buddha diceva ai discepoli di non credergli sulla parola, ma proponeva a chi era interessato di mettere in pratica i suoi insegnamenti e verificare se producessero i frutti desiderati. Non si tratta infatti solamente di accettare la validità di qualche ragionamento, ma di trasformare se stessi, e questo non ci si può limitare a pensarlo: si deve fare.

Su questo punto si innesta l’unico significato che il termine “fede” può assumere in questa prospettiva: credere alla testimonianza di chi dimostra con i fatti di aver conseguito quei risultati ai quali si aspira. Questo è un concetto di fede critico e laico, del quale non si può fare a meno in nessuna disciplina ed attività umana. Anche le relazioni degli esperimenti di laboratorio richiedono che si creda che i loro autori non le hanno inventate.

Lo so, non ho ancora cominciato a parlare di ciò che Ricard ci racconta. Ma penso che queste premesse siano importanti ed in realtà siano insieme premesse e contenuto. Se partiamo dal presupposto che chi ci racconta di essere felice è un impostore, come potremo mai imparare qualcosa da lui? Per quanto mi riguarda, ho aperto la mente ed ho ascoltato; ho sperimentato qualcosa, ed ho capito che vale la pena di proseguire…

(segue)

    

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Oggetti prestigiosi

 

Uno degli aggettivi più abusati e logori degli ultimi anni è senza dubbio “prestigioso”.

Il tentativo di distinguersi a prezzo di saldo e la pubblicità hanno trovato in quella magica parola un punto d’incontro, attribuendo l’agognata caratteristica agli oggetti più disparati, dalle automobili ai quartieri delle città, dagli abiti ai cibi.

Sono così diventate prestigiose anche alcune carte di credito.

Ricordo una pubblicità che ne mostrava una nella sua versione di più alto rango, che prendeva nome da un pregiato metallo (non ricordo se fosse platino, oro o stronzio).

L’avvolgente messaggio promozionale lasciava intendere che al possessore di così mirabile strumento si sarebbero aperte tutte le porte, rendendolo oggetto di stupita venerazione da parte dei comuni mortali accecati dall’apparizione del fulgido rettangolo di plastica.

Mi venne l’idea di telefonare al numero indicato per scandagliare la profondità degli “esclusivi privilegi” che l’oggetto prometteva ai suoi felici possessori.

Quando nominai all’addetta l’argomento della mia domanda, questa cadde in immediato deliquio. La sua spiegazione esordì con un “Oh, quella…” che rapidamente sfumò, affidando l’ineffabile messaggio a sospiri di soggiogata adorazione.

Le chiesi allora di precisarmi il contenuto degli esclusivi privilegi, e la risposta, dopo un fugace accenno a vaghe coperture assicurative, fu che non in volgari vantaggi economici consisteva il valore della magnifica carta, ma nell’aureola di gloria della quale aveva il potere di circonfondere il suo privilegiato possessore. “Quando lei – anzi, disse Lei – mostra questa carta…” e di nuovo le parole le fecero difetto, cedendo il passo ad una manifestazione non verbale di attonita meraviglia.

Rimase così confermata l’ipotesi che mi aveva spinto a telefonare: il principale privilegio che quella carta elargiva era quello di rimpolpare le tasche della società emittente.

Sono stato, per alcuni anni, portatore sano di una carta di credito allora considerata assai prestigiosa, ancorché né d’oro né d’altri portentosi metalli. Un signore al passo con i tempi che mi avvenne di incontrare in un albergo discretamente stellato trovò l’occasione di mostrarmi la sua collezione di carte. Credo ci fossero tutte quelle disponibili sul mercato. Espresse il parere che la mia fosse senza dubbio la più prestigiosa, qualificando la sua maggiore concorrente con l’abominevole aggettivo “popolare”.

Con il distintissimo strumento di pagamento ebbi un paio d’illuminanti esperienze. 

Frequentavo con una certa assiduità un albergo del Nord Italia, nella periferia di un’opulenta città dove, per ragioni di lavoro, passai alcune settimane. Dopo essere rimasto insoddisfatto di un albergo del centro, una sera mi presentai nell’unico disponibile nella suddetta periferia. Ero perfettamente sconosciuto, era tardi e non c’erano alternative nel raggio di qualche chilometro. So per esperienza che, come è facile immaginare, questa situazione non predispone solitamente gli albergatori a praticare le tariffe migliori. Chiesi il prezzo, che era comunque quello che mi aspettavo, e mi stabilii lì.

Durante un fine settimana tra un viaggio e l’altro, mi avvenne di leggere, sul prestigiosissimo bollettino patinato che la mia carta forniva come esclusivo dono, che l’emittente aveva concordato una convenzione con il mio albergo. Ripetei così l’esperimento già fatto con la carta regale della quale vi ho raccontato poco fa, esperimento consistente in quello che a poker si chiama “vedere”. Anche stavolta non mi ero sbagliato. Il gentile commesso dell’albergo mi rivelò che a me veniva applicata una speciale tariffa scontata (nata nella situazione illustrata poco fa, senza che mi fosse fatta parola della natura favorevole del trattamento), mentre la convenzione si riferiva a quella intera, così che utilizzandola avrei pagato di più.

Questo può contribuire ad illustrare la natura degli “esclusivi vantaggi offerti ad una clientela selezionata”.

Ebbi, però, la fortunata occasione di toccare con mano anche il prestigio emanato da quella straordinaria carta.

Fu in un negozio di abbigliamento del centro storico di Roma, in una di quelle strade che s’incrociano perpendicolarmente tra piazza di Spagna e via del Corso.

Avevo scelto due camicie, e mi accingevo a pagare. Diedi al commesso – o forse era il proprietario – la sullodata carta (senza peraltro aspettarmi che cadesse prostrato ai miei piedi), ed ecco quello che accadde. Il pover’uomo si coprì il viso con le mani, assunse un’espressione terrorizzata e lanciò la testuale invocazione: ”No! Quella no!”. Seguì qualche momento per tornare alla normalità respiratoria, poi il malcapitato mi pregò di pagare in qualsiasi altro modo, dai contanti agli assegni, dal bancomat ad un’altra carta, e si profuse in dettagliate spiegazioni sulle percentuali che la mia carta sottraeva ai suoi incassi ed altri particolari, senza tuttavia dilungarsi sulle ragioni che lo spingevano a mantenere la convenzione che, vistosamente esposta sulle vetrine, magari favoriva l’ingresso di qualche cliente (e chissà se il buon uomo s’è successivamente accorto di averne perso uno).

Dal canto mio, dopo aver tenuto per qualche anno la carta nonostante il suo martellamento pubblicitario e l’insistenza su argomentazioni francamente offensive per i suoi utilizzatori, la ho restituita senza rimpianti e ne uso felicemente due assai meno prestigiose, che però non spaventano nessuno e non mi danno del cretino con puntuale cadenza mensile.

 

 

 

 

 

 

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Un uomo felice – 2

 

(segue Un uomo felice)

Prima di entrare nel  merito del contenuto del libro Plaidoyer pour le bonheur, vorrei rendervi partecipi di una riflessione che ho fatto dopo averlo letto.

Secondo un abitudinario approccio che spesso adottiamo, la mia mente aveva costruito una storia che suonava così: “Ho visto il titolo di un giornale, l’argomento mi ha colpito ed ho letto l’articolo. Ho quindi pensato che valesse la pena di leggere alcuni libri scritti dalla persona della quale parlava, li ho ordinato e li ho letti. Così ho scoperto Matthieu Ricard, il Buddhismo e la possibilità di affrontare la vita in modo molto diverso da quello dominante nel cosiddetto mondo occidentale del ventunesimo secolo”.

Sembra che fili, vero?

Poiché so che “le cose” non sono mai quello che sembrano al primo sguardo, ho ricostruito la storia da un altro punto di vista: quello di Monsieur Ricard. Costui, come vi ho accennato, era entrato in contatto con il Buddhismo in gioventù, e dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari partì per approfondire l’argomento. Dopo diverse vicende decise di farsi monaco. 

In seguito a questa scelta arrivò a provare una felicità profonda, che sapeva impossibile raggiungere vivendo secondo i comuni valori del suo paese e del suo tempo. Volendo mettere le proprie conclusioni a disposizione di chi fosse interessato a conoscerle, scrisse dei libri impostati in modo tale da risultare comprensibili ad un lettore occidentale.

Essendo un uomo di scienza, e trovando fertile terreno negli interessi scientifici dello stesso Dalai Lama, partecipò (tra l’altro) agli esperimenti di Richard Davidson.

Ritenendo che conoscere i risultati di questi esperimenti potesse essere di stimolo a qualcuno, rilasciò delle interviste a giornalisti interessati…

Credo che ormai il risultato del mio cambiamento di prospettiva sia chiaro a tutti: non sono stato io a trovare Matthieu Ricard, ma è stato lui a trovare me!

Limitati dal nostro radicato egocentrismo, tendiamo ad attribuire a noi stessi l’origine, i meriti ed i demeriti di ciò che ci accade, ma la catena degli eventi è infinitamente più lunga di quanto in quest’angusta ottica riusciamo a vedere.

(segue in Un uomo felice – 3)

 

  

 

 

 

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Vincitori e vinti

  

 

In queste giornate che ci offrono forsennati festeggiamenti, inconsolabili disperazioni, polemiche e discussioni aspre fino all’omicidio per le vicende del campionato mondiale di calcio, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni di qualche anno fa.

Nel 1985, dopo lunghe e tormentate vicende, fu assegnato il titolo di campione del mondo di scacchi a Garry Kasparov, che aveva sconfitto Anatolij Karpov. I due si scontrarono altre volte negli anni successivi, e Kasparov mantenne sempre il titolo.

Nel 1990, la situazione complessiva delle partite giocate tra loro nei cinque incontri disputati per il campionato del mondo era questa: avevano giocato 144 partite, delle quali 104 si erano concluse con una patta, 19 erano state vinte da Karpov e 21 erano state vinte da Kasparov. Due punti di scarto in sei anni, cinque incontri e 144 partite! Nel 1987 l’incontro si concluse in parità, 12 a 12, ed a norma di regolamento il campione conservò il titolo.

Per qualsiasi storia degli scacchi, dal 1985 al 1990 Garry Kasparov fu il campione del mondo, e su questo non c’è dubbio.

Ora vorrei spostarmi all’inizio del secolo (scacchistico) scorso. Il grande Emanuel Lasker, uno dei più forti giocatori della storia, fu campione del mondo per ventisette anni: dal 1894 al 1921. Allora non esisteva la Federazione Internazionale, e le regole delle sfide per il titolo si contrattavano di volta in volta. Ovviamente il campione in carica aveva maggior forza contrattuale e riusciva ad imporre regole palesemente inique (ed anche ad evitare avversari sgraditi). Non tutti sanno quel che accadde nel 1910, quando Lasker ebbe come avversario Carl Schlechter. Sembra, anche se qualcuno nega che sia accertato, che Lasker avesse imposto la regola che lo sfidante dovesse vincere di due punti su dieci partite per togliergli il titolo. Di fatto, si arrivò all’ultima partita con Schlechter in vantaggio di un punto. Si presentò una situazione nella quale lo sfidante, con il nero, avrebbe potuto facilmente forzare la patta e vincere l’incontro di un punto. Invece, fece una mossa dubbia che però gli forniva una possibilità di vincere, e perse. È verosimile concludere che un giocatore della sua forza ed esperienza abbia giocato così solamente perché costretto a cercare di guadagnare il secondo punto, e non per non aver individuato la possibilità di pattare. L’incontro finì così con un pareggio, e Lasker conservò il titolo. Sono un grande ammiratore di Emanuel Lasker, ma per quanto mi riguarda nel 1910 lo scacchista più forte del mondo era Carl Schlechter.

Comunque sia, per qualsiasi storia degli scacchi, dal 1894 al 1921 Lasker fu il campione del mondo, come dal 1985 al 1990 lo fu Kasparov, ed anche su questo non c’è dubbio.

A questo punto vorrei fare qualche ipotesi. Supponiamo che un campionato del mondo possa concludersi con un’assegnazione ex aequo: due campioni a pari merito. Strano? Per la cultura dominante, sì. Si tratta, però, di una convenzione che non riflette i valori in campo, forzando l’esistenza di un vincitore. Qualcuno è in grado di dimostrare che debba necessariamente esistere un singolo giocatore più forte di tutti gli altri? Certamente no. Personalmente, non mi disturba minimamente l’idea che esistano due, o anche più, campioni del mondo di qualcosa.

L’esigenza di stabilire un vincitore va molto oltre il desiderio della sportiva determinazione del più forte e l’espressione della simpatia per uno dei contendenti. Fornisce ai molti che ne hanno bisogno un punto di riferimento ed una ragione di compiacimento, permette a rivalità e frustrazioni di esprimersi, permette d’identificarsi con un gruppo illudendosi di acquisirne la forza, permette a bulli e teppisti di trovare un pretesto per le loro azioni delinquenziali, permette a molti affaristi senza scrupoli di arricchirsi a spese della comune ingenuità e della salute degli atleti. Tutte cose che con la competizione sportiva hanno assai poco a che vedere.

Non sostengo, ovviamente, che le classifiche non riflettano, in generale, la forza dei contendenti. Negli anni di Kasparov e Karpov, mentre la differenza tra l’uno e l’altro era minima, quella tra entrambi e gli altri giocatori era notevole. I punti che metto in discussione sono:

  • l’individuazione forzata e l’enfatizzazione del “numero uno”, che spesso, anche se non sempre, non esiste;
  • l’enfatizzazione di minime differenze rispetto ad enormi somiglianze;
  • la dipendenza delle classifiche da regole arbitrarie

Mi soffermerò sui primi due punti, riservando il terzo a future riflessioni.

Perché abbiamo bisogno di classifiche, vincitori e numeri uno? Credo che la ragione di fondo sia l’esigenza umana di dare un senso alla realtà, categorizzandola e denominandola, costruendo certezze dove non ci sono che qualche ipotesi e molti punti interrogativi. Ora, questo processo è, entro certi limiti, necessario alla nostra conoscenza ancorché inevitabilmente arbitrario. Non possiamo conoscere senza distorcere. Però possiamo imparare a mantenere un distacco che ci permetta di vedere le cose sotto diversi punti di vista, ampliare le prospettive e capire di più. Soprattutto, possiamo imparare una delle lezioni più difficili: convivere con l’incertezza. Chi è il più forte scacchista del mondo? Io non lo so, non so se abbia senso chiederselo e sto benissimo così. C’è un campione del mondo, l’indiano Vishy Anand. È fortissimo ed io lo ammiro molto, però c’è chi dubita che sia effettivamente più forte del suo ultimo avversario, Veselin Topalov. Che bisogno c’è di sceglierne uno? Nel mio mondo mentale c’è spazio per entrambi. Forse non sono propriamente amici, ma qui da me convivono tranquillamente…

La valutazione d’insieme di un incontro di scacchi incerto potrebbe iniziare in modo simile a questo: “I due avversari hanno un livello di gioco sostanzialmente pari, X appare leggermente più forte nel trattamento dei finali, Y esce più spesso in posizione vantaggiosa dall’apertura. Nel gioco combinativo si equivalgono. X ha vinto una partita in più su 24 in una giornata nella quale il suo avversario era lievemente deconcentrato per ragioni personali…”.

Non sto certo sostenendo che vada abolita la competitività. La contrapposizione binaria vincitore – sconfitto è invece convenzionale, nasconde molti dati significativi su ciò che accade e semplifica situazioni complesse fino all’insulto all’intelligenza.

Mi torna alla mente una scena che si presentò ai miei occhi alcuni anni fa.

Mi trovavo in un bel circolo sportivo nei dintorni di Roma, dove si svolgeva un torneo femminile di tennis di buon livello. Seguii una parte di un incontro, osservando compiaciuto le due giocatrici che offrivano un piacevole spettacolo. Terminata la partita, stavo camminando per un vialetto del circolo, circondato da prati, piante ed alberi in una splendida giornata di settembre. Seduta su una panchina c’era una delle due ragazze, una tennista brava e graziosa. Piangeva disperata, con la testa nascosta tra le mani, per aver perso.

Non vi sembra che qualcosa non quadri?  

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Un uomo felice

Un giorno d’estate del 2008, mentre ero intento ad uno slalom ipertestuale tra le notizie dei giornali, la mia attenzione fu attratta dal titolo L’uomo più felice del mondo. Pur non amando l’enfasi giornalistica ed i titoli ad effetto (per usare un eufemismo), decisi che valeva la pena di dare un’occhiata.

Si parlava di un singolare esperimento, condotto dal neuroscienziato Richard Davidson all’Università del Wisconsin.

L’illustre ricercatore aveva in precedenza cercato di individuare i processi cerebrali che corrispondono agli stati di benessere; impresa non facile, data la difficoltà di definire e, soprattutto, di generare in laboratorio i suddetti stati. Al termine di una serie di esperimenti, scoprì che coloro che si dichiaravano – e si dimostravano – pieni di gioia presentavano uno specifico tipo di attività nella corteccia prefrontale.

Basandosi su questo risultato, Davidson sottopose alla misurazione di quest’attività dei monaci buddhisti che avevano una lunga esperienza nell’esercizio della meditazione. I risultati mostrarono dei valori alti nell’”indicatore della felicità”, ed in alcuni casi dei valori molto alti. Ci fu però uno dei soggetti che fornì un risultato straordinario, molto al di fuori dell’intervallo dei valori ottenuto fino a quel momento: si tratta, appunto, di colui che ha ricevuto (dai giornalisti, non da Davidson!) la grossolana etichetta di “uomo più felice del mondo”. Chi è costui?

Sorprendentemente, non si tratta di un buddhista orientale ma di un francese, la cui storia mi è sembrata meritevole della massima attenzione.

Il suo nome è Matthieu Ricard. Suo padre, conosciuto con lo pseudonimo di Jean-François Revel, era un intellettuale d’alto rango, filosofo, giornalista e politico, entrato poi nell’Académie Française. Matthieu, cresciuto in un ambiente assai favorevole alla formazione di una vasta cultura, era un ragazzo d’ingegno. La sua casa era frequentata da personaggi come Luis Buñuel, Igor Stravinski e Henry Cartier-Bresson. Prese il dottorato in biologia molecolare al Pasteur Institute, allievo di François Jacob.

Il giovane Matthieu entrò in contatto con il Buddhismo attraverso i documentari di Arnaud Desjardins, ed il suo interesse lo portò ad intraprendere il percorso della meditazione, a visitare luoghi ed esponenti del Buddhismo e quindi a diventare monaco e stabilirsi in Nepal nel monastero di Shechen.

Con ogni evidenza, in Francia aveva davanti a sé una vita di scienziato, ricca di possibilità e soddisfazioni. Oggi quest’uomo, oltre a sorprendere i ricercatori, si dichiara felice della scelta di andare a vivere da monaco in Nepal. Ho pensato che fosse opportuno un approfondimento, ed ho ordinato e letto senza indugio due dei suoi libri: Plaidoyer pour le bonheur (Arringa per la felicità) e L’infini dans la paume de la main (L’infinito nel palmo della mano, traduzione del famoso verso di William Blake «Hold infinity in the palm of your hand»: un dialogo con un astrofisico su Buddhismo e scienza).

Prima di parlarvi di quello che ho trovato in queste letture, vorrei anticipare un piccolo esperimento che ho fatto in un secondo momento. Sapevo che Ricard aveva scritto, da biologo e prima di diventare monaco, un saggio sulle migrazioni degli animali (Les migrations animales). Poiché l’argomento desta in me un certo sospetto, dovuto all’impostazione assai poco scientifica con la quale l’argomento viene a volte trattato, facendo appello a misteriosi “poteri” degli animali, me ne sono procurato una copia (di seconda mano, trattandosi di un’edizione degli anni sessanta) per verificare la serietà dell’approccio, che ne è uscita completamente confermata. Ricard possedeva una vera formazione scientifica di alto livello, ed a partire da questa intraprese il percorso buddhista. Poiché so bene che il mondo delle filosofie orientali è pieno di pseudosapienti, che si dividono tra i truffatori a caccia di polli che cedano senza opporre resistenza le loro penne e maestri che pontificano pur essendo ben lontani dall’avere i requisiti intellettuali e culturali minimi per insegnare qualcosa, ho cercato di accertarmi, prima di dedicargli tempo ed attenzione, che Matthieu non facesse parte di questo numero.

E con questo, non desiderando abusare catilinescamente della vostra pazienza, per oggi mi fermo rinviando il seguito alla prossima puntata. Ma non fatevi illusioni: ce ne saranno molte!

(segue in Un uomo felice – 2)

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