Le parole per dirlo

 

Le parole che comprendiamo ed usiamo sono il prodotto della cultura nella quale viviamo, e sono a loro volta il mezzo, e contemporaneamente il limite, attraverso il quale la nostra cultura si perpetua.

Ogni lingua ha abbondanza di parole per alcuni argomenti ma ne è povera per altri; e questo rende rispettivamente agevole o difficoltoso il progredire della conoscenza di questi argomenti.

Avete mai provato a descrivere un odore? Se non è uno dei pochi che si riferiscono direttamente ad un oggetto comune, come, per esempio, l’odore del glicine, vi sarà molto difficile se non impossibile. Immaginate questo esperimento: entrate con un amico in una profumeria ed annusate diversi profumi, poi cercate di spiegargli le loro caratteristiche e differenze. Non ci riuscirete. Per qualche profumo potrete trovare qualche termine analogico o metaforico, dicendo che è fresco, intenso, acuto o cose del genere. Si tratta, evidentemente, di termini generici che non sanno indicare la nota specifica delle sensazioni. Se immaginate di proseguire l’esperimento per centinaia di profumi diversi, la resa sarà inevitabile.

La studiosa di odori Sissel Tolaas ha raccolto e catalogato 7800 essenze ed ha proposto la creazione di un apposito dizionario, il Nasalo, per denominare gli odori.

Se paragoniamo la situazione con quella dei colori, ci accorgiamo immediatamente dell’abissale differenza di disponibilità lessicale.

La nostra cultura si interessa poco agli odori e non ha creato termini specifici per differenziarli. Di conseguenza, ad ognuno di noi è difficile ragionare sugli odori ed approfondirne la conoscenza.

È facile non accorgersi di questi fenomeni se si vive acriticamente la cultura nella quale si è nati. Eppure, sono fenomeni che non si limitano certo alla definizione degli odori, ma entrano nella scienza, nella filosofia e nella visione della vita.

Questo è un punto che può portare ad incomprensioni e fraintendimenti quando si viene a contatto con culture lontane nel tempo o nello spazio.

Un aspetto di grande interesse del Buddhismo è la sua articolatissima concezione di… già, di che cosa? La prima parola che si presenta alla mente – e spesso alla carta – è “emozioni”. Emozioni negative e positive, quelle che producono sofferenza e quelle che la riducono.

Ogni studio serio e documentato dell’argomento, però, mette in guardia chi si si accinge ad affrontarlo. Gli stati mentali – ed anche questa locuzione è molto approssimativa – dei quali parla la psicologia buddhista non corrispondono alle nostre emozioni. Comprendono stati che noi chiameremmo cognitivi, vittime sempre del dualismo cartesiano che continuiamo a portare con noi. Viceversa, non esiste, ad esempio, una parola tibetana che possa tradurre “emozione”.

Ma questo non è che il primo gradino delle difficoltà.

Il punto è che il nostro lessico emozionale è straordinariamente povero ed ambiguo. Descrivere le emozioni non fa parte delle occupazioni dominanti della cultura occidentale. Comunicare sulle emozioni è un’impresa davvero ardua.

Penso che prendere coscienza di questi fenomeni sia essenziale per ampliare i nostri orizzonti oltre quello che ci viene quotidianamente proposto, e poter così trarre frutto da millenni di riflessioni ed esperienze che i nostri avi hanno sostanzialmente ignorato fino al secolo scorso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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