Un uomo felice – 2

 

(segue Un uomo felice)

Prima di entrare nel  merito del contenuto del libro Plaidoyer pour le bonheur, vorrei rendervi partecipi di una riflessione che ho fatto dopo averlo letto.

Secondo un abitudinario approccio che spesso adottiamo, la mia mente aveva costruito una storia che suonava così: “Ho visto il titolo di un giornale, l’argomento mi ha colpito ed ho letto l’articolo. Ho quindi pensato che valesse la pena di leggere alcuni libri scritti dalla persona della quale parlava, li ho ordinato e li ho letti. Così ho scoperto Matthieu Ricard, il Buddhismo e la possibilità di affrontare la vita in modo molto diverso da quello dominante nel cosiddetto mondo occidentale del ventunesimo secolo”.

Sembra che fili, vero?

Poiché so che “le cose” non sono mai quello che sembrano al primo sguardo, ho ricostruito la storia da un altro punto di vista: quello di Monsieur Ricard. Costui, come vi ho accennato, era entrato in contatto con il Buddhismo in gioventù, e dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari partì per approfondire l’argomento. Dopo diverse vicende decise di farsi monaco. 

In seguito a questa scelta arrivò a provare una felicità profonda, che sapeva impossibile raggiungere vivendo secondo i comuni valori del suo paese e del suo tempo. Volendo mettere le proprie conclusioni a disposizione di chi fosse interessato a conoscerle, scrisse dei libri impostati in modo tale da risultare comprensibili ad un lettore occidentale.

Essendo un uomo di scienza, e trovando fertile terreno negli interessi scientifici dello stesso Dalai Lama, partecipò (tra l’altro) agli esperimenti di Richard Davidson.

Ritenendo che conoscere i risultati di questi esperimenti potesse essere di stimolo a qualcuno, rilasciò delle interviste a giornalisti interessati…

Credo che ormai il risultato del mio cambiamento di prospettiva sia chiaro a tutti: non sono stato io a trovare Matthieu Ricard, ma è stato lui a trovare me!

Limitati dal nostro radicato egocentrismo, tendiamo ad attribuire a noi stessi l’origine, i meriti ed i demeriti di ciò che ci accade, ma la catena degli eventi è infinitamente più lunga di quanto in quest’angusta ottica riusciamo a vedere.

(segue in Un uomo felice – 3)

 

  

 

 

 

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Vincitori e vinti

  

 

In queste giornate che ci offrono forsennati festeggiamenti, inconsolabili disperazioni, polemiche e discussioni aspre fino all’omicidio per le vicende del campionato mondiale di calcio, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni di qualche anno fa.

Nel 1985, dopo lunghe e tormentate vicende, fu assegnato il titolo di campione del mondo di scacchi a Garry Kasparov, che aveva sconfitto Anatolij Karpov. I due si scontrarono altre volte negli anni successivi, e Kasparov mantenne sempre il titolo.

Nel 1990, la situazione complessiva delle partite giocate tra loro nei cinque incontri disputati per il campionato del mondo era questa: avevano giocato 144 partite, delle quali 104 si erano concluse con una patta, 19 erano state vinte da Karpov e 21 erano state vinte da Kasparov. Due punti di scarto in sei anni, cinque incontri e 144 partite! Nel 1987 l’incontro si concluse in parità, 12 a 12, ed a norma di regolamento il campione conservò il titolo.

Per qualsiasi storia degli scacchi, dal 1985 al 1990 Garry Kasparov fu il campione del mondo, e su questo non c’è dubbio.

Ora vorrei spostarmi all’inizio del secolo (scacchistico) scorso. Il grande Emanuel Lasker, uno dei più forti giocatori della storia, fu campione del mondo per ventisette anni: dal 1894 al 1921. Allora non esisteva la Federazione Internazionale, e le regole delle sfide per il titolo si contrattavano di volta in volta. Ovviamente il campione in carica aveva maggior forza contrattuale e riusciva ad imporre regole palesemente inique (ed anche ad evitare avversari sgraditi). Non tutti sanno quel che accadde nel 1910, quando Lasker ebbe come avversario Carl Schlechter. Sembra, anche se qualcuno nega che sia accertato, che Lasker avesse imposto la regola che lo sfidante dovesse vincere di due punti su dieci partite per togliergli il titolo. Di fatto, si arrivò all’ultima partita con Schlechter in vantaggio di un punto. Si presentò una situazione nella quale lo sfidante, con il nero, avrebbe potuto facilmente forzare la patta e vincere l’incontro di un punto. Invece, fece una mossa dubbia che però gli forniva una possibilità di vincere, e perse. È verosimile concludere che un giocatore della sua forza ed esperienza abbia giocato così solamente perché costretto a cercare di guadagnare il secondo punto, e non per non aver individuato la possibilità di pattare. L’incontro finì così con un pareggio, e Lasker conservò il titolo. Sono un grande ammiratore di Emanuel Lasker, ma per quanto mi riguarda nel 1910 lo scacchista più forte del mondo era Carl Schlechter.

Comunque sia, per qualsiasi storia degli scacchi, dal 1894 al 1921 Lasker fu il campione del mondo, come dal 1985 al 1990 lo fu Kasparov, ed anche su questo non c’è dubbio.

A questo punto vorrei fare qualche ipotesi. Supponiamo che un campionato del mondo possa concludersi con un’assegnazione ex aequo: due campioni a pari merito. Strano? Per la cultura dominante, sì. Si tratta, però, di una convenzione che non riflette i valori in campo, forzando l’esistenza di un vincitore. Qualcuno è in grado di dimostrare che debba necessariamente esistere un singolo giocatore più forte di tutti gli altri? Certamente no. Personalmente, non mi disturba minimamente l’idea che esistano due, o anche più, campioni del mondo di qualcosa.

L’esigenza di stabilire un vincitore va molto oltre il desiderio della sportiva determinazione del più forte e l’espressione della simpatia per uno dei contendenti. Fornisce ai molti che ne hanno bisogno un punto di riferimento ed una ragione di compiacimento, permette a rivalità e frustrazioni di esprimersi, permette d’identificarsi con un gruppo illudendosi di acquisirne la forza, permette a bulli e teppisti di trovare un pretesto per le loro azioni delinquenziali, permette a molti affaristi senza scrupoli di arricchirsi a spese della comune ingenuità e della salute degli atleti. Tutte cose che con la competizione sportiva hanno assai poco a che vedere.

Non sostengo, ovviamente, che le classifiche non riflettano, in generale, la forza dei contendenti. Negli anni di Kasparov e Karpov, mentre la differenza tra l’uno e l’altro era minima, quella tra entrambi e gli altri giocatori era notevole. I punti che metto in discussione sono:

  • l’individuazione forzata e l’enfatizzazione del “numero uno”, che spesso, anche se non sempre, non esiste;
  • l’enfatizzazione di minime differenze rispetto ad enormi somiglianze;
  • la dipendenza delle classifiche da regole arbitrarie

Mi soffermerò sui primi due punti, riservando il terzo a future riflessioni.

Perché abbiamo bisogno di classifiche, vincitori e numeri uno? Credo che la ragione di fondo sia l’esigenza umana di dare un senso alla realtà, categorizzandola e denominandola, costruendo certezze dove non ci sono che qualche ipotesi e molti punti interrogativi. Ora, questo processo è, entro certi limiti, necessario alla nostra conoscenza ancorché inevitabilmente arbitrario. Non possiamo conoscere senza distorcere. Però possiamo imparare a mantenere un distacco che ci permetta di vedere le cose sotto diversi punti di vista, ampliare le prospettive e capire di più. Soprattutto, possiamo imparare una delle lezioni più difficili: convivere con l’incertezza. Chi è il più forte scacchista del mondo? Io non lo so, non so se abbia senso chiederselo e sto benissimo così. C’è un campione del mondo, l’indiano Vishy Anand. È fortissimo ed io lo ammiro molto, però c’è chi dubita che sia effettivamente più forte del suo ultimo avversario, Veselin Topalov. Che bisogno c’è di sceglierne uno? Nel mio mondo mentale c’è spazio per entrambi. Forse non sono propriamente amici, ma qui da me convivono tranquillamente…

La valutazione d’insieme di un incontro di scacchi incerto potrebbe iniziare in modo simile a questo: “I due avversari hanno un livello di gioco sostanzialmente pari, X appare leggermente più forte nel trattamento dei finali, Y esce più spesso in posizione vantaggiosa dall’apertura. Nel gioco combinativo si equivalgono. X ha vinto una partita in più su 24 in una giornata nella quale il suo avversario era lievemente deconcentrato per ragioni personali…”.

Non sto certo sostenendo che vada abolita la competitività. La contrapposizione binaria vincitore – sconfitto è invece convenzionale, nasconde molti dati significativi su ciò che accade e semplifica situazioni complesse fino all’insulto all’intelligenza.

Mi torna alla mente una scena che si presentò ai miei occhi alcuni anni fa.

Mi trovavo in un bel circolo sportivo nei dintorni di Roma, dove si svolgeva un torneo femminile di tennis di buon livello. Seguii una parte di un incontro, osservando compiaciuto le due giocatrici che offrivano un piacevole spettacolo. Terminata la partita, stavo camminando per un vialetto del circolo, circondato da prati, piante ed alberi in una splendida giornata di settembre. Seduta su una panchina c’era una delle due ragazze, una tennista brava e graziosa. Piangeva disperata, con la testa nascosta tra le mani, per aver perso.

Non vi sembra che qualcosa non quadri?  

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Un uomo felice

Un giorno d’estate del 2008, mentre ero intento ad uno slalom ipertestuale tra le notizie dei giornali, la mia attenzione fu attratta dal titolo L’uomo più felice del mondo. Pur non amando l’enfasi giornalistica ed i titoli ad effetto (per usare un eufemismo), decisi che valeva la pena di dare un’occhiata.

Si parlava di un singolare esperimento, condotto dal neuroscienziato Richard Davidson all’Università del Wisconsin.

L’illustre ricercatore aveva in precedenza cercato di individuare i processi cerebrali che corrispondono agli stati di benessere; impresa non facile, data la difficoltà di definire e, soprattutto, di generare in laboratorio i suddetti stati. Al termine di una serie di esperimenti, scoprì che coloro che si dichiaravano – e si dimostravano – pieni di gioia presentavano uno specifico tipo di attività nella corteccia prefrontale.

Basandosi su questo risultato, Davidson sottopose alla misurazione di quest’attività dei monaci buddhisti che avevano una lunga esperienza nell’esercizio della meditazione. I risultati mostrarono dei valori alti nell’”indicatore della felicità”, ed in alcuni casi dei valori molto alti. Ci fu però uno dei soggetti che fornì un risultato straordinario, molto al di fuori dell’intervallo dei valori ottenuto fino a quel momento: si tratta, appunto, di colui che ha ricevuto (dai giornalisti, non da Davidson!) la grossolana etichetta di “uomo più felice del mondo”. Chi è costui?

Sorprendentemente, non si tratta di un buddhista orientale ma di un francese, la cui storia mi è sembrata meritevole della massima attenzione.

Il suo nome è Matthieu Ricard. Suo padre, conosciuto con lo pseudonimo di Jean-François Revel, era un intellettuale d’alto rango, filosofo, giornalista e politico, entrato poi nell’Académie Française. Matthieu, cresciuto in un ambiente assai favorevole alla formazione di una vasta cultura, era un ragazzo d’ingegno. La sua casa era frequentata da personaggi come Luis Buñuel, Igor Stravinski e Henry Cartier-Bresson. Prese il dottorato in biologia molecolare al Pasteur Institute, allievo di François Jacob.

Il giovane Matthieu entrò in contatto con il Buddhismo attraverso i documentari di Arnaud Desjardins, ed il suo interesse lo portò ad intraprendere il percorso della meditazione, a visitare luoghi ed esponenti del Buddhismo e quindi a diventare monaco e stabilirsi in Nepal nel monastero di Shechen.

Con ogni evidenza, in Francia aveva davanti a sé una vita di scienziato, ricca di possibilità e soddisfazioni. Oggi quest’uomo, oltre a sorprendere i ricercatori, si dichiara felice della scelta di andare a vivere da monaco in Nepal. Ho pensato che fosse opportuno un approfondimento, ed ho ordinato e letto senza indugio due dei suoi libri: Plaidoyer pour le bonheur (Arringa per la felicità) e L’infini dans la paume de la main (L’infinito nel palmo della mano, traduzione del famoso verso di William Blake «Hold infinity in the palm of your hand»: un dialogo con un astrofisico su Buddhismo e scienza).

Prima di parlarvi di quello che ho trovato in queste letture, vorrei anticipare un piccolo esperimento che ho fatto in un secondo momento. Sapevo che Ricard aveva scritto, da biologo e prima di diventare monaco, un saggio sulle migrazioni degli animali (Les migrations animales). Poiché l’argomento desta in me un certo sospetto, dovuto all’impostazione assai poco scientifica con la quale l’argomento viene a volte trattato, facendo appello a misteriosi “poteri” degli animali, me ne sono procurato una copia (di seconda mano, trattandosi di un’edizione degli anni sessanta) per verificare la serietà dell’approccio, che ne è uscita completamente confermata. Ricard possedeva una vera formazione scientifica di alto livello, ed a partire da questa intraprese il percorso buddhista. Poiché so bene che il mondo delle filosofie orientali è pieno di pseudosapienti, che si dividono tra i truffatori a caccia di polli che cedano senza opporre resistenza le loro penne e maestri che pontificano pur essendo ben lontani dall’avere i requisiti intellettuali e culturali minimi per insegnare qualcosa, ho cercato di accertarmi, prima di dedicargli tempo ed attenzione, che Matthieu non facesse parte di questo numero.

E con questo, non desiderando abusare catilinescamente della vostra pazienza, per oggi mi fermo rinviando il seguito alla prossima puntata. Ma non fatevi illusioni: ce ne saranno molte!

(segue in Un uomo felice – 2)

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