Oggetti prestigiosi

 

Uno degli aggettivi più abusati e logori degli ultimi anni è senza dubbio “prestigioso”.

Il tentativo di distinguersi a prezzo di saldo e la pubblicità hanno trovato in quella magica parola un punto d’incontro, attribuendo l’agognata caratteristica agli oggetti più disparati, dalle automobili ai quartieri delle città, dagli abiti ai cibi.

Sono così diventate prestigiose anche alcune carte di credito.

Ricordo una pubblicità che ne mostrava una nella sua versione di più alto rango, che prendeva nome da un pregiato metallo (non ricordo se fosse platino, oro o stronzio).

L’avvolgente messaggio promozionale lasciava intendere che al possessore di così mirabile strumento si sarebbero aperte tutte le porte, rendendolo oggetto di stupita venerazione da parte dei comuni mortali accecati dall’apparizione del fulgido rettangolo di plastica.

Mi venne l’idea di telefonare al numero indicato per scandagliare la profondità degli “esclusivi privilegi” che l’oggetto prometteva ai suoi felici possessori.

Quando nominai all’addetta l’argomento della mia domanda, questa cadde in immediato deliquio. La sua spiegazione esordì con un “Oh, quella…” che rapidamente sfumò, affidando l’ineffabile messaggio a sospiri di soggiogata adorazione.

Le chiesi allora di precisarmi il contenuto degli esclusivi privilegi, e la risposta, dopo un fugace accenno a vaghe coperture assicurative, fu che non in volgari vantaggi economici consisteva il valore della magnifica carta, ma nell’aureola di gloria della quale aveva il potere di circonfondere il suo privilegiato possessore. “Quando lei – anzi, disse Lei – mostra questa carta…” e di nuovo le parole le fecero difetto, cedendo il passo ad una manifestazione non verbale di attonita meraviglia.

Rimase così confermata l’ipotesi che mi aveva spinto a telefonare: il principale privilegio che quella carta elargiva era quello di rimpolpare le tasche della società emittente.

Sono stato, per alcuni anni, portatore sano di una carta di credito allora considerata assai prestigiosa, ancorché né d’oro né d’altri portentosi metalli. Un signore al passo con i tempi che mi avvenne di incontrare in un albergo discretamente stellato trovò l’occasione di mostrarmi la sua collezione di carte. Credo ci fossero tutte quelle disponibili sul mercato. Espresse il parere che la mia fosse senza dubbio la più prestigiosa, qualificando la sua maggiore concorrente con l’abominevole aggettivo “popolare”.

Con il distintissimo strumento di pagamento ebbi un paio d’illuminanti esperienze. 

Frequentavo con una certa assiduità un albergo del Nord Italia, nella periferia di un’opulenta città dove, per ragioni di lavoro, passai alcune settimane. Dopo essere rimasto insoddisfatto di un albergo del centro, una sera mi presentai nell’unico disponibile nella suddetta periferia. Ero perfettamente sconosciuto, era tardi e non c’erano alternative nel raggio di qualche chilometro. So per esperienza che, come è facile immaginare, questa situazione non predispone solitamente gli albergatori a praticare le tariffe migliori. Chiesi il prezzo, che era comunque quello che mi aspettavo, e mi stabilii lì.

Durante un fine settimana tra un viaggio e l’altro, mi avvenne di leggere, sul prestigiosissimo bollettino patinato che la mia carta forniva come esclusivo dono, che l’emittente aveva concordato una convenzione con il mio albergo. Ripetei così l’esperimento già fatto con la carta regale della quale vi ho raccontato poco fa, esperimento consistente in quello che a poker si chiama “vedere”. Anche stavolta non mi ero sbagliato. Il gentile commesso dell’albergo mi rivelò che a me veniva applicata una speciale tariffa scontata (nata nella situazione illustrata poco fa, senza che mi fosse fatta parola della natura favorevole del trattamento), mentre la convenzione si riferiva a quella intera, così che utilizzandola avrei pagato di più.

Questo può contribuire ad illustrare la natura degli “esclusivi vantaggi offerti ad una clientela selezionata”.

Ebbi, però, la fortunata occasione di toccare con mano anche il prestigio emanato da quella straordinaria carta.

Fu in un negozio di abbigliamento del centro storico di Roma, in una di quelle strade che s’incrociano perpendicolarmente tra piazza di Spagna e via del Corso.

Avevo scelto due camicie, e mi accingevo a pagare. Diedi al commesso – o forse era il proprietario – la sullodata carta (senza peraltro aspettarmi che cadesse prostrato ai miei piedi), ed ecco quello che accadde. Il pover’uomo si coprì il viso con le mani, assunse un’espressione terrorizzata e lanciò la testuale invocazione: ”No! Quella no!”. Seguì qualche momento per tornare alla normalità respiratoria, poi il malcapitato mi pregò di pagare in qualsiasi altro modo, dai contanti agli assegni, dal bancomat ad un’altra carta, e si profuse in dettagliate spiegazioni sulle percentuali che la mia carta sottraeva ai suoi incassi ed altri particolari, senza tuttavia dilungarsi sulle ragioni che lo spingevano a mantenere la convenzione che, vistosamente esposta sulle vetrine, magari favoriva l’ingresso di qualche cliente (e chissà se il buon uomo s’è successivamente accorto di averne perso uno).

Dal canto mio, dopo aver tenuto per qualche anno la carta nonostante il suo martellamento pubblicitario e l’insistenza su argomentazioni francamente offensive per i suoi utilizzatori, la ho restituita senza rimpianti e ne uso felicemente due assai meno prestigiose, che però non spaventano nessuno e non mi danno del cretino con puntuale cadenza mensile.

 

 

 

 

 

 

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