Ciechi che vedono?
Il testo che segue è la sintesi di una relazione tenuta al convegno romano di Duebi Nuove Frontiere di novembre 2017 e successivamente pubblicata nel numero di settembre/ottobre 2018 del Giornale dei Misteri. Parla delle esperienze di premorte (o NDE) nei ciechi. Dato che nel corso di queste esperienze si hanno percezioni di tipo visivo come il tunnel, gli esseri di luce e la visione panoramica della propria vita, ci si chiede come queste si svolgano nei ciechi.
Penso che l’argomento presenti motivi di interesse anche per chi non si occupa di questi fenomeni. Si parla di come espressioni di uso comune ed apparentemente univoche (“Ho visto le chiavi sul tavolo”) siano invece plasmate dalla cultura nella quale vengono utilizzate e possano riferirsi ad eventi diversi da quelli letteralmente espressi. Si parla del valore informativo delle nostre percezioni, che è diverso dalla forma sotto la quale queste lo rappresentano. Si parla della necessità di guardare oltre le apparenze (che è uno dei punti fermi di questo blog), ma sempre mantenendo uno spirito critico ed alieno da qualsiasi facile scorciatoia.
Buona lettura!
Le esperienze di premorte nei ciechi
Lo studio di Kenneth Ring e Sharon Cooper
Durante lo svolgimento di un’esperienza di premorte (o NDE, Near-Death Experience) si presentano frequentemente dei fenomeni di tipo visivo.
Questo può accadere nella cosiddetta “fase extracorporea” (o OBE: Out-of-Body Experience): l’ambiente circostante è percepito da un punto di vista esterno al corpo, generalmente dall’alto. La persona che si è trovata in tale situazione descrive eventi, cose e persone visti da questa prospettiva. L’esperienza extracorporea, peraltro, non si presenta solamente nel contesto di una NDE.
Anche durante la “fase trascendente” dell’esperienza di premorte si manifestano dei fenomeni che vengono descritti in termini visivi, come l’incontro con persone defunte ed esseri di luce, l’apparire di scenari non terreni e la visione panoramica della propria vita o life review.
Ci si è quindi chiesti come sia vissuta un’esperienza di premorte da persone cieche dalla nascita, che non hanno mai avuto percezioni visive.
Per molti anni sono state riferite storie di ciechi che, dopo un’esperienza di premorte, raccontavano di aver visto in modo chiaro quello che accadeva intorno a loro e lo descrivevano dettagliatamente; tuttavia queste storie mancavano di riferimenti che permettessero di verificarne l’attendibilità.
Nel 1999 Kenneth Ring, uno dei maggiori ricercatori nel settore delle NDE, ha pubblicato uno studio sistematico sulle NDE dei ciechi (Ring e Cooper, 2008).
Si tratta di uno studio retrospettivo, svolto intervistando 31 persone. Di queste, 14 erano cieche dalla nascita, 11 erano divenute cieche dopo i 5 anni e 6 avevano una gravissima invalidità visiva. Tutti avevano avuto una NDE, una OBE o entrambe.
Ring si propone di rispondere a queste domande:
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- Se i ciechi abbiano delle NDE e, in caso positivo, se queste presentino gli stessi elementi di quelle dei vedenti;
- Se i ciechi riferiscano di avere avuto percezioni visive nelle loro NDE e, in caso positivo, se queste percezioni possano essere confermate da testimonianze esterne.
Le esperienze visive nelle NDE dei ciechi
Dallo studio risulta che i ciechi hanno delle NDE. I loro racconti risultano analoghi a quelli dei vedenti e presentano gli stessi elementi: sensazione di serenità e mancanza di dolore, senso di separazione dal corpo, attraversamento di un tunnel, incontro con defunti e figure spirituali, incontro con la luce, visione panoramica della vita (o life review), incontro con un limite, decisione di tornare.
Le persone intervistate dichiarano in grande maggioranza di avere avuto percezioni visive: 15 su 21 tra quelli chi hanno avuto una NDE e 9 su 10 tra quelli chi hanno avuto solamente una OBE.
Una delle persone intervistate, cieca dalla nascita, dichiara di aver riconosciuto il proprio corpo, visto dall’esterno, dai capelli lunghi e dalla particolare fede matrimoniale con dei boccioli; poi, trovatasi sopra il soffitto, riferisce di aver visto le luci e gli edifici della città. Aggiunge che la NDE è stata l’unica esperienza della sua vita collegata alla vista e alla luce.
In un altro racconto l’intervistato, anche questo cieco dalla nascita, dice di aver visto – dopo aver “attraversato il soffitto” dell’edificio nel quale si trovava – il cielo scuro e nuvoloso e la neve sulle strade, ma non su quelle che erano state spalate ed apparivano ancora fangose. C’erano i mucchi di neve formati dalle spalatrici. Si potevano riconoscere il parco giochi della sua scuola ed una collinetta sulla quale era solito arrampicarsi. Tutte queste cose erano viste con molta chiarezza.
La conferma della veridicità di queste percezioni non è rigorosa: si tratta di racconti che si riferiscono a fatti avvenuti molti anni prima, con la conseguente difficoltà di ottenere testimonianze attendibili.
Appaiono descrizioni visive dettagliate anche durante la life review: in un caso l’intervistata dice di aver riconosciuto sedie, tavoli e letti in una delle scene rivissute. Questo racconto è accompagnato dallo stupore per aver potuto vedere a distanza, mentre la percezione avuta al momento dello svolgimento dei fatti rievocati nella life review era stata di tipo tattile e quindi in una prospettiva molto ravvicinata. Il racconto prosegue con la descrizione della nonna defunta, bassa e grassottella, con i capelli corti e ricci.
Interpretazione delle esperienze visive
Le percezioni sono quindi descritte dai ciechi in termini visivi, e a volte sono molto dettagliate. Tuttavia, approfondendo l’analisi, Ring nota che le persone intervistate non sono in grado di confermare che si tratti dello stesso tipo di percezione che hanno i vedenti: d’altra parte, i ciechi non hanno un punto di riferimento che permetta loro di dare tale conferma. Occorre qui sottolineare che non si tratta di stabilire se “i ciechi abbiano visto”: neppure i vedenti vedono in senso stretto durante una NDE o una OBE; si tratta invece di stabilire se il tipo di percezione avuto dai ciechi sia dello stesso tipo, ovvero visivo, di quello avuto dai vedenti, cosa che risulterebbe al momento inesplicabile.
L’impossibilità dei ciechi di produrre percezioni visive anche puramente mentali è confermata dalla mancanza di tali percezioni nei sogni. Numerose ricerche confermano che nei sogni dei ciechi dalla nascita o dalla prima infanzia non si manifestano immagini visive. Nello stesso studio di Ring gli intervistati negano esplicitamente qualsiasi somiglianza delle percezioni avute nelle NDE con quelle dei sogni, che sono prevalentemente di natura uditiva e tattile, e mai visiva.
L’interpretazione dei racconti dello studio deve tener conto dal fatto che i ciechi usano lo stesso lessico visivo dei vedenti perché questo è il modo di esprimersi dominante nella nostra cultura, che è ampiamente basata sulla vista. Se ad esempio un cieco si accorge, per averlo toccato, che c’è un mazzo di chiavi su un tavolo, è probabile che dica “Ho visto le chiavi sul tavolo”, come è confermato da operatori che frequentano i ciechi.
Approfondendo le testimonianze dei partecipanti allo studio, risulta dunque che questi hanno avuto delle percezioni nette dell’ambiente e le hanno descritte in termini visivi, pur non essendo in grado di produrre mentalmente delle immagini. Sulle caratteristiche di queste percezioni ci sono nello studio di Ring delle espressioni rivelatrici: nel corso della discussione, un’intervistata distingue tra vedere e visualizzare, ovvero creare una rappresentazione mentale. Un’altra dice che si è trattato non solamente di vedere, ma di vedere e sapere contemporaneamente.
Nasce quindi l’ipotesi che si tratti di un’acquisizione di informazioni avvenuta in modo non ordinario con caratteristiche non propriamente visive, e successivamente espressa in termini visivi.
L’esperienza visiva dei vedenti nelle NDE
D’altra parte, anche quando un vedente ha una percezione durante un’esperienza extracorporea o di premorte non si può certo dire che questa abbia caratteristiche visive nel senso ordinario del termine. Le percezioni che si hanno in tali situazioni presentano infatti delle peculiarità che non sono compatibili con la comune esperienza visiva:
- Si “vede” in modo globale (spesso di dice “a 360 gradi”): si vede contemporaneamente tutto lo spazio circostante;
- Si “vede” simultaneamente da più punti di vista, come se ci si trovasse contemporaneamente davanti, dietro, a destra, a sinistra, sopra e sotto l’oggetto percepito: in un caso riferito da Michael Sabom, una persona rianimata dopo un arresto cardiaco riferì di aver letto dall’altezza del soffitto una targhetta che si trovava sotto il suo letto;
- Si “vede” oltre gli ostacoli e dentro spazi chiusi: dietro pareti e soffitti oppure dentro cassetti e tasche.
La nostra vista non permette siffatte percezioni. Queste corrispondono invece a quello che si vedrebbe se ci si trovasse in un punto di osservazione situato in una dimensione spaziale superiore. Non si tratta quindi, neppure per i vedenti, di percezioni di tipo visivo, ma di acquisizioni di conoscenza che vengono poi tradotte, con grande difficoltà, in termini visivi. Ad esempio, per dire di aver visto oltre una parete si riferisce di aver “attraversato” la parete. Una partecipante allo studio di Ring riferisce di aver percepito, dall’altezza del soffitto, il letto inferiore di due letti a castello, e ne arguisce che non può averlo fatto tramite la vista. Anche la visione globale e quella da più punti di vista vengono descritte tanto da vedenti quanto dai soggetti dello studio di Ring.
Mindsight
Si delinea quindi l’ipotesi che vi sia un unico tipo di esperienza, comune a ciechi e vedenti, che si può presentare durante una NDE o una OBE. Se si considerano veridiche le testimonianze, si tratta di una percezione che fornisce informazioni sul mondo esterno ma non corrisponde ad alcuna specifica modalità sensoriale e viene abitualmente tradotta in termini visivi, ma in alcuni casi anche cinestetici. A questa particolare modalità percettiva Ring ha dato il nome di Mindsight, o visione mentale. Si tratta di qualcosa di diverso dalla vista fisica: una forma di consapevolezza che può manifestarsi al di fuori dei comuni meccanismi cerebrali e dei vincoli spaziotemporali che ne conseguono, definita da Ring “consapevolezza trascendentale”. Sui meccanismi che possono produrla non siamo in grado di formulare ipotesi. Esistono a questo proposito dei modelli della coscienza, alcuni dei quali fanno riferimento al concetto quantistico di non località, ma si tratta più di linee di riflessione che di vere e proprie teorie. Rimane quindi uno spazio aperto ad indagini che potrebbero comportare una revisione profonda delle concezioni attualmente dominanti nel mondo scientifico.
Bibliografia
Blackmore S., Dying to Live, Prometheus Books, New York 1993
Brumblay R.J. Hyperdimensional Perspectives in Out-of-Body and Near-Death-Experiences. Journal of Near-Death Studies, 21, 201-221.
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Hameroff S., Penrose R., StappH., Chopra D. Consciousness and the Universe: Quantum Physics, Evolution, Brain & Mind. Cosmology Science Publishers, 2011.
Hinton C.H. Selected Writings. Dover, New York, 1980.
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Kaku M. Hyperspace. Oxford University Press, New York, 1995.
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Ring K. e Cooper S. Mindsight (Second Edition): Near-Death and Out-of-Body Experiences in the blind. IUniverse, Bloomington, 2008.
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Rucker R. La quarta dimensione. Adelphi, Milano, 1984.
Sabom Michael B. Recollections of Death. Corgi, London, 1982.
Van Lommel P. Consciousness Beyond Life. Harper One, New York, 2011.
Zampardi M., Modelli della mente e geometria dello spazio-tempo: un’ipotesi per il fenomeno NDE. Atti 18° Congresso Internazionale si Studi delle Esperienze di Confine, San Marino 2013
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Un uomo felice – 2
(segue Un uomo felice)
Prima di entrare nel merito del contenuto del libro Plaidoyer pour le bonheur, vorrei rendervi partecipi di una riflessione che ho fatto dopo averlo letto.
Secondo un abitudinario approccio che spesso adottiamo, la mia mente aveva costruito una storia che suonava così: “Ho visto il titolo di un giornale, l’argomento mi ha colpito ed ho letto l’articolo. Ho quindi pensato che valesse la pena di leggere alcuni libri scritti dalla persona della quale parlava, li ho ordinato e li ho letti. Così ho scoperto Matthieu Ricard, il Buddhismo e la possibilità di affrontare la vita in modo molto diverso da quello dominante nel cosiddetto mondo occidentale del ventunesimo secolo”.
Sembra che fili, vero?
Poiché so che “le cose” non sono mai quello che sembrano al primo sguardo, ho ricostruito la storia da un altro punto di vista: quello di Monsieur Ricard. Costui, come vi ho accennato, era entrato in contatto con il Buddhismo in gioventù, e dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari partì per approfondire l’argomento. Dopo diverse vicende decise di farsi monaco.
In seguito a questa scelta arrivò a provare una felicità profonda, che sapeva impossibile raggiungere vivendo secondo i comuni valori del suo paese e del suo tempo. Volendo mettere le proprie conclusioni a disposizione di chi fosse interessato a conoscerle, scrisse dei libri impostati in modo tale da risultare comprensibili ad un lettore occidentale.
Essendo un uomo di scienza, e trovando fertile terreno negli interessi scientifici dello stesso Dalai Lama, partecipò (tra l’altro) agli esperimenti di Richard Davidson.
Ritenendo che conoscere i risultati di questi esperimenti potesse essere di stimolo a qualcuno, rilasciò delle interviste a giornalisti interessati…
Credo che ormai il risultato del mio cambiamento di prospettiva sia chiaro a tutti: non sono stato io a trovare Matthieu Ricard, ma è stato lui a trovare me!
Limitati dal nostro radicato egocentrismo, tendiamo ad attribuire a noi stessi l’origine, i meriti ed i demeriti di ciò che ci accade, ma la catena degli eventi è infinitamente più lunga di quanto in quest’angusta ottica riusciamo a vedere.
(segue in Un uomo felice – 3)
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Un uomo felice
Un giorno d’estate del 2008, mentre ero intento ad uno slalom ipertestuale tra le notizie dei giornali, la mia attenzione fu attratta dal titolo L’uomo più felice del mondo. Pur non amando l’enfasi giornalistica ed i titoli ad effetto (per usare un eufemismo), decisi che valeva la pena di dare un’occhiata.
Si parlava di un singolare esperimento, condotto dal neuroscienziato Richard Davidson all’Università del Wisconsin.
L’illustre ricercatore aveva in precedenza cercato di individuare i processi cerebrali che corrispondono agli stati di benessere; impresa non facile, data la difficoltà di definire e, soprattutto, di generare in laboratorio i suddetti stati. Al termine di una serie di esperimenti, scoprì che coloro che si dichiaravano – e si dimostravano – pieni di gioia presentavano uno specifico tipo di attività nella corteccia prefrontale.
Basandosi su questo risultato, Davidson sottopose alla misurazione di quest’attività dei monaci buddhisti che avevano una lunga esperienza nell’esercizio della meditazione. I risultati mostrarono dei valori alti nell’”indicatore della felicità”, ed in alcuni casi dei valori molto alti. Ci fu però uno dei soggetti che fornì un risultato straordinario, molto al di fuori dell’intervallo dei valori ottenuto fino a quel momento: si tratta, appunto, di colui che ha ricevuto (dai giornalisti, non da Davidson!) la grossolana etichetta di “uomo più felice del mondo”. Chi è costui?
Sorprendentemente, non si tratta di un buddhista orientale ma di un francese, la cui storia mi è sembrata meritevole della massima attenzione.
Il suo nome è Matthieu Ricard. Suo padre, conosciuto con lo pseudonimo di Jean-François Revel, era un intellettuale d’alto rango, filosofo, giornalista e politico, entrato poi nell’Académie Française. Matthieu, cresciuto in un ambiente assai favorevole alla formazione di una vasta cultura, era un ragazzo d’ingegno. La sua casa era frequentata da personaggi come Luis Buñuel, Igor Stravinski e Henry Cartier-Bresson. Prese il dottorato in biologia molecolare al Pasteur Institute, allievo di François Jacob.
Il giovane Matthieu entrò in contatto con il Buddhismo attraverso i documentari di Arnaud Desjardins, ed il suo interesse lo portò ad intraprendere il percorso della meditazione, a visitare luoghi ed esponenti del Buddhismo e quindi a diventare monaco e stabilirsi in Nepal nel monastero di Shechen.
Con ogni evidenza, in Francia aveva davanti a sé una vita di scienziato, ricca di possibilità e soddisfazioni. Oggi quest’uomo, oltre a sorprendere i ricercatori, si dichiara felice della scelta di andare a vivere da monaco in Nepal. Ho pensato che fosse opportuno un approfondimento, ed ho ordinato e letto senza indugio due dei suoi libri: Plaidoyer pour le bonheur (Arringa per la felicità) e L’infini dans la paume de la main (L’infinito nel palmo della mano, traduzione del famoso verso di William Blake «Hold infinity in the palm of your hand»: un dialogo con un astrofisico su Buddhismo e scienza).
Prima di parlarvi di quello che ho trovato in queste letture, vorrei anticipare un piccolo esperimento che ho fatto in un secondo momento. Sapevo che Ricard aveva scritto, da biologo e prima di diventare monaco, un saggio sulle migrazioni degli animali (Les migrations animales). Poiché l’argomento desta in me un certo sospetto, dovuto all’impostazione assai poco scientifica con la quale l’argomento viene a volte trattato, facendo appello a misteriosi “poteri” degli animali, me ne sono procurato una copia (di seconda mano, trattandosi di un’edizione degli anni sessanta) per verificare la serietà dell’approccio, che ne è uscita completamente confermata. Ricard possedeva una vera formazione scientifica di alto livello, ed a partire da questa intraprese il percorso buddhista. Poiché so bene che il mondo delle filosofie orientali è pieno di pseudosapienti, che si dividono tra i truffatori a caccia di polli che cedano senza opporre resistenza le loro penne e maestri che pontificano pur essendo ben lontani dall’avere i requisiti intellettuali e culturali minimi per insegnare qualcosa, ho cercato di accertarmi, prima di dedicargli tempo ed attenzione, che Matthieu non facesse parte di questo numero.
E con questo, non desiderando abusare catilinescamente della vostra pazienza, per oggi mi fermo rinviando il seguito alla prossima puntata. Ma non fatevi illusioni: ce ne saranno molte!
(segue in Un uomo felice – 2)
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