Le parole per dirlo 2: sukha
Sukha: mi sono imbattuto per la prima volta in questa parola leggendo Plaidoyer pour le bonheur, il libro dello scienziato e monaco buddhista Matthieu Ricard del quale vi ho parlato.
È un termine sanscrito, che esprime uno dei concetti di base del Buddhismo. Non ha un corrispettivo in alcuna lingua occidentale, e viene a volte tradotto in italiano con felicità.
Indica uno stato di benessere profondo e stabile, che si riflette in ogni azione di chi lo possiede e gli permette di affrontare gli avvenimenti della vita – piacevoli e spiacevoli – senza esserne turbato.
Ho letto alcuni racconti dei prodigi di sukha nel libro di Ricard. Su alcuni ho fatto delle ricerche. Si tratta di storie che possono sembrare impossibili, e contengono inestimabili insegnamenti. Mi ripropongo di parlarvene.
Come vi ho fatto notare, non esiste un termine sanscrito che corrisponda ad emozione.
Sukha non è un’emozione. È, invece, uno stato contemporaneamente ed inscindibilmente emotivo e cognitivo. Implica una comprensione dei processi mentali, che di norma si acquista attraverso la pratica della meditazione. E qui torniamo all’errore di Cartesio… L’impossibilità di separare l’emozione dalla conoscenza, compresa in India duemilacinquecento anni fa, è una delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. I circuiti neurali della conoscenza e quelli delle emozioni sono strettamente interconnessi e non sono separabili. La nostra cultura è invece dominata dal dilemma “emozione o ragione”, come se si trattasse di concetti distinti e confliggenti, ed arriva talvolta a pretendere che ci siano delle norme matematiche per il comportamento razionale.
Sukha è quindi gioia e nello stesso tempo conoscenza. È un’interpretazione del mondo dalla quale nascono serenità e capacità di affrontare circostanze avverse. Solo la comprensione, non puramente concettuale ma profonda e vissuta, dei meccanismi della nostra mente ci permette di modificare il peso che attribuiamo a ciò che accade; e la felicità e l’infelicità non risiedono in quello che accade, ma nel modo in cui noi lo viviamo.
Sukha non è un ottimismo artificioso ed ingenuo che cerchi di mostrare le cose per quello che non sono. Al contrario, si fonda sul riconoscimento a viso aperto di ciò che effettivamente accade. Non comporta alcuna forzatura di insostenibili stati d’animo euforici.
Non pretendo certo, con questo piccolo articolo, di “spiegare il significato” di sukha, neppure il poco che ho creduto di comprenderne. Sto solo cercando di fornire a chi non ha avuto occasione di trovarlo finora un punto di accesso in un mondo sconfinato. In questa piccola parola confluiscono più di due millenni di riflessioni ed esperienze vissute. Io penso che che valga la pena di approfondirne la conoscenza, ed è quello che sto personalmente facendo. Capire questa parola non è però un atto intellettuale, ma un’esperienza.
Nella cultura occidentale abbiamo studiato molto l’angoscia, e grandissimi artisti l’hanno descritta e raccontata. Abbiamo più parole per raccontare l’angoscia che la felicità.
Non pensate che ampliare il nostro lessico su quel versante dell’esperienza umana sia una buona idea?
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Le parole per dirlo
Le parole che comprendiamo ed usiamo sono il prodotto della cultura nella quale viviamo, e sono a loro volta il mezzo, e contemporaneamente il limite, attraverso il quale la nostra cultura si perpetua.
Ogni lingua ha abbondanza di parole per alcuni argomenti ma ne è povera per altri; e questo rende rispettivamente agevole o difficoltoso il progredire della conoscenza di questi argomenti.
Avete mai provato a descrivere un odore? Se non è uno dei pochi che si riferiscono direttamente ad un oggetto comune, come, per esempio, l’odore del glicine, vi sarà molto difficile se non impossibile. Immaginate questo esperimento: entrate con un amico in una profumeria ed annusate diversi profumi, poi cercate di spiegargli le loro caratteristiche e differenze. Non ci riuscirete. Per qualche profumo potrete trovare qualche termine analogico o metaforico, dicendo che è fresco, intenso, acuto o cose del genere. Si tratta, evidentemente, di termini generici che non sanno indicare la nota specifica delle sensazioni. Se immaginate di proseguire l’esperimento per centinaia di profumi diversi, la resa sarà inevitabile.
La studiosa di odori Sissel Tolaas ha raccolto e catalogato 7800 essenze ed ha proposto la creazione di un apposito dizionario, il Nasalo, per denominare gli odori.
Se paragoniamo la situazione con quella dei colori, ci accorgiamo immediatamente dell’abissale differenza di disponibilità lessicale.
La nostra cultura si interessa poco agli odori e non ha creato termini specifici per differenziarli. Di conseguenza, ad ognuno di noi è difficile ragionare sugli odori ed approfondirne la conoscenza.
È facile non accorgersi di questi fenomeni se si vive acriticamente la cultura nella quale si è nati. Eppure, sono fenomeni che non si limitano certo alla definizione degli odori, ma entrano nella scienza, nella filosofia e nella visione della vita.
Questo è un punto che può portare ad incomprensioni e fraintendimenti quando si viene a contatto con culture lontane nel tempo o nello spazio.
Un aspetto di grande interesse del Buddhismo è la sua articolatissima concezione di… già, di che cosa? La prima parola che si presenta alla mente – e spesso alla carta – è “emozioni”. Emozioni negative e positive, quelle che producono sofferenza e quelle che la riducono.
Ogni studio serio e documentato dell’argomento, però, mette in guardia chi si si accinge ad affrontarlo. Gli stati mentali – ed anche questa locuzione è molto approssimativa – dei quali parla la psicologia buddhista non corrispondono alle nostre emozioni. Comprendono stati che noi chiameremmo cognitivi, vittime sempre del dualismo cartesiano che continuiamo a portare con noi. Viceversa, non esiste, ad esempio, una parola tibetana che possa tradurre “emozione”.
Ma questo non è che il primo gradino delle difficoltà.
Il punto è che il nostro lessico emozionale è straordinariamente povero ed ambiguo. Descrivere le emozioni non fa parte delle occupazioni dominanti della cultura occidentale. Comunicare sulle emozioni è un’impresa davvero ardua.
Penso che prendere coscienza di questi fenomeni sia essenziale per ampliare i nostri orizzonti oltre quello che ci viene quotidianamente proposto, e poter così trarre frutto da millenni di riflessioni ed esperienze che i nostri avi hanno sostanzialmente ignorato fino al secolo scorso.
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Un uomo felice – 3
(segue Un uomo felice – 2)
Oggi comincerò a raccontarvi quello che ho scoperto partendo dalla lettura di Plaidoyer pour le bonheur (di questo libro esiste anche una traduzione italiana, Il gusto di essere felici, editore Sperling Kupfer).
Si tratta di una scoperta che credo possa interessare non solo per il suo contenuto, ma anche per il modo nel quale è avvenuta, e fornire spunti di riflessione su come idee, convinzioni e decisioni entrino nella nostra mente.
Quando ho iniziato la lettura ignoravo pressoché tutto del Buddhismo. Avevo letto qualche pagina di introduzione generale, che metteva insieme approssimativi concetti senza trasmettere nulla dell’essenziale. Molti di noi hanno sperimentato la differenza tra la sommaria trattazione enciclopedica di un argomento fatta in modo astratto, concettuale e sintetico e quella fatta da chi conosce a fondo, vive e sente un argomento. Il mio professore di latino e greco del liceo era innamorato di Catullo e ne aveva una conoscenza profonda. Un giorno si lanciò in una carrellata di un’intera ora sui suoi versi, alternando la recitazione (a memoria, ovviamente) alle considerazioni e spiegazioni sulla sua bellezza. Rimasi incantato, e da allora quei versi hanno avuto per me un significato radicalmente diverso da quello che può trovare chi è stato sottoposto a pedanti dissertazioni sui metri, vuote disquisizioni sui contenuti e letture stentate ed incomprese.
Analogamente, leggere le parole di un uomo che ha trasformato se stesso cambiando radicalmente vita ed ha raggiunto uno stato di felicità che le nostre comuni ambizioni non possono neppure farci sfiorare può lasciare una traccia, mentre non vedo come possa farlo un dettagliato saggio da manuale.
Ciò premesso, l’oggetto del libro non è il Buddhismo ma quella “cosa” elusiva e per molti illusoria che è la felicità. Il fatto è che il Buddhismo, come non tutti sanno dalle nostre parti, nasce dalla riflessione sulla sofferenza e sul modo di evitarla; e nasce non da una rivelazione ma dall’ esperienza personale di un uomo, chiamato appunto il Buddha. Quest’ uomo non ha pensato né dichiarato di essere stato illuminato, eletto o generato da una divinità. Si è interrogato sulla sofferenza umana, ed ha pensato molto. Non ha pensato come si pensa in occidente, in modo esclusivamente o prevalentemente logico e discorsivo. Ha acuito invece la concentrazione per poi dirigerla verso la percezione delle verità che costituiscono il fondamento della sofferenza e del suo superamento. Si è trasformato attraverso questa esperienza ed ha compreso che si può raggiungere una visione delle cose nella quale la sofferenza cessa di esistere, e si è dedicato ad insegnarla agli altri.
Considero le parole di Matthieu Ricard non solo una lezione ma anche una testimonianza. Il suo racconto illustra princìpi e ragioni che spingono a modificare le proprie abitudini mentali, ma cita anche casi, alcuni dei quali autobiografici, nei quali questo processo è avvenuto. Descrive esperimenti e ricerche che confermano la validità degli assunti. Il Buddhismo non è solo una filosofia, ma anche una pratica. Né la sola teoria né la sola pratica possono condurre al risultato, ed entrambe sono rigorosamente basate sull’esperienza. Buddha diceva ai discepoli di non credergli sulla parola, ma proponeva a chi era interessato di mettere in pratica i suoi insegnamenti e verificare se producessero i frutti desiderati. Non si tratta infatti solamente di accettare la validità di qualche ragionamento, ma di trasformare se stessi, e questo non ci si può limitare a pensarlo: si deve fare.
Su questo punto si innesta l’unico significato che il termine “fede” può assumere in questa prospettiva: credere alla testimonianza di chi dimostra con i fatti di aver conseguito quei risultati ai quali si aspira. Questo è un concetto di fede critico e laico, del quale non si può fare a meno in nessuna disciplina ed attività umana. Anche le relazioni degli esperimenti di laboratorio richiedono che si creda che i loro autori non le hanno inventate.
Lo so, non ho ancora cominciato a parlare di ciò che Ricard ci racconta. Ma penso che queste premesse siano importanti ed in realtà siano insieme premesse e contenuto. Se partiamo dal presupposto che chi ci racconta di essere felice è un impostore, come potremo mai imparare qualcosa da lui? Per quanto mi riguarda, ho aperto la mente ed ho ascoltato; ho sperimentato qualcosa, ed ho capito che vale la pena di proseguire…
(segue)
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Un uomo felice – 2
(segue Un uomo felice)
Prima di entrare nel merito del contenuto del libro Plaidoyer pour le bonheur, vorrei rendervi partecipi di una riflessione che ho fatto dopo averlo letto.
Secondo un abitudinario approccio che spesso adottiamo, la mia mente aveva costruito una storia che suonava così: “Ho visto il titolo di un giornale, l’argomento mi ha colpito ed ho letto l’articolo. Ho quindi pensato che valesse la pena di leggere alcuni libri scritti dalla persona della quale parlava, li ho ordinato e li ho letti. Così ho scoperto Matthieu Ricard, il Buddhismo e la possibilità di affrontare la vita in modo molto diverso da quello dominante nel cosiddetto mondo occidentale del ventunesimo secolo”.
Sembra che fili, vero?
Poiché so che “le cose” non sono mai quello che sembrano al primo sguardo, ho ricostruito la storia da un altro punto di vista: quello di Monsieur Ricard. Costui, come vi ho accennato, era entrato in contatto con il Buddhismo in gioventù, e dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari partì per approfondire l’argomento. Dopo diverse vicende decise di farsi monaco.
In seguito a questa scelta arrivò a provare una felicità profonda, che sapeva impossibile raggiungere vivendo secondo i comuni valori del suo paese e del suo tempo. Volendo mettere le proprie conclusioni a disposizione di chi fosse interessato a conoscerle, scrisse dei libri impostati in modo tale da risultare comprensibili ad un lettore occidentale.
Essendo un uomo di scienza, e trovando fertile terreno negli interessi scientifici dello stesso Dalai Lama, partecipò (tra l’altro) agli esperimenti di Richard Davidson.
Ritenendo che conoscere i risultati di questi esperimenti potesse essere di stimolo a qualcuno, rilasciò delle interviste a giornalisti interessati…
Credo che ormai il risultato del mio cambiamento di prospettiva sia chiaro a tutti: non sono stato io a trovare Matthieu Ricard, ma è stato lui a trovare me!
Limitati dal nostro radicato egocentrismo, tendiamo ad attribuire a noi stessi l’origine, i meriti ed i demeriti di ciò che ci accade, ma la catena degli eventi è infinitamente più lunga di quanto in quest’angusta ottica riusciamo a vedere.
(segue in Un uomo felice – 3)
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Un uomo felice
Un giorno d’estate del 2008, mentre ero intento ad uno slalom ipertestuale tra le notizie dei giornali, la mia attenzione fu attratta dal titolo L’uomo più felice del mondo. Pur non amando l’enfasi giornalistica ed i titoli ad effetto (per usare un eufemismo), decisi che valeva la pena di dare un’occhiata.
Si parlava di un singolare esperimento, condotto dal neuroscienziato Richard Davidson all’Università del Wisconsin.
L’illustre ricercatore aveva in precedenza cercato di individuare i processi cerebrali che corrispondono agli stati di benessere; impresa non facile, data la difficoltà di definire e, soprattutto, di generare in laboratorio i suddetti stati. Al termine di una serie di esperimenti, scoprì che coloro che si dichiaravano – e si dimostravano – pieni di gioia presentavano uno specifico tipo di attività nella corteccia prefrontale.
Basandosi su questo risultato, Davidson sottopose alla misurazione di quest’attività dei monaci buddhisti che avevano una lunga esperienza nell’esercizio della meditazione. I risultati mostrarono dei valori alti nell’”indicatore della felicità”, ed in alcuni casi dei valori molto alti. Ci fu però uno dei soggetti che fornì un risultato straordinario, molto al di fuori dell’intervallo dei valori ottenuto fino a quel momento: si tratta, appunto, di colui che ha ricevuto (dai giornalisti, non da Davidson!) la grossolana etichetta di “uomo più felice del mondo”. Chi è costui?
Sorprendentemente, non si tratta di un buddhista orientale ma di un francese, la cui storia mi è sembrata meritevole della massima attenzione.
Il suo nome è Matthieu Ricard. Suo padre, conosciuto con lo pseudonimo di Jean-François Revel, era un intellettuale d’alto rango, filosofo, giornalista e politico, entrato poi nell’Académie Française. Matthieu, cresciuto in un ambiente assai favorevole alla formazione di una vasta cultura, era un ragazzo d’ingegno. La sua casa era frequentata da personaggi come Luis Buñuel, Igor Stravinski e Henry Cartier-Bresson. Prese il dottorato in biologia molecolare al Pasteur Institute, allievo di François Jacob.
Il giovane Matthieu entrò in contatto con il Buddhismo attraverso i documentari di Arnaud Desjardins, ed il suo interesse lo portò ad intraprendere il percorso della meditazione, a visitare luoghi ed esponenti del Buddhismo e quindi a diventare monaco e stabilirsi in Nepal nel monastero di Shechen.
Con ogni evidenza, in Francia aveva davanti a sé una vita di scienziato, ricca di possibilità e soddisfazioni. Oggi quest’uomo, oltre a sorprendere i ricercatori, si dichiara felice della scelta di andare a vivere da monaco in Nepal. Ho pensato che fosse opportuno un approfondimento, ed ho ordinato e letto senza indugio due dei suoi libri: Plaidoyer pour le bonheur (Arringa per la felicità) e L’infini dans la paume de la main (L’infinito nel palmo della mano, traduzione del famoso verso di William Blake «Hold infinity in the palm of your hand»: un dialogo con un astrofisico su Buddhismo e scienza).
Prima di parlarvi di quello che ho trovato in queste letture, vorrei anticipare un piccolo esperimento che ho fatto in un secondo momento. Sapevo che Ricard aveva scritto, da biologo e prima di diventare monaco, un saggio sulle migrazioni degli animali (Les migrations animales). Poiché l’argomento desta in me un certo sospetto, dovuto all’impostazione assai poco scientifica con la quale l’argomento viene a volte trattato, facendo appello a misteriosi “poteri” degli animali, me ne sono procurato una copia (di seconda mano, trattandosi di un’edizione degli anni sessanta) per verificare la serietà dell’approccio, che ne è uscita completamente confermata. Ricard possedeva una vera formazione scientifica di alto livello, ed a partire da questa intraprese il percorso buddhista. Poiché so bene che il mondo delle filosofie orientali è pieno di pseudosapienti, che si dividono tra i truffatori a caccia di polli che cedano senza opporre resistenza le loro penne e maestri che pontificano pur essendo ben lontani dall’avere i requisiti intellettuali e culturali minimi per insegnare qualcosa, ho cercato di accertarmi, prima di dedicargli tempo ed attenzione, che Matthieu non facesse parte di questo numero.
E con questo, non desiderando abusare catilinescamente della vostra pazienza, per oggi mi fermo rinviando il seguito alla prossima puntata. Ma non fatevi illusioni: ce ne saranno molte!
(segue in Un uomo felice – 2)
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