Le arrabbiature di Paul Ekman

 

La storia che mi accingo a raccontarvi ha tre protagonisti: Paul Ekman (con la figlia), il Mind and Life Institute ed il Dalai Lama.

Paul Ekman, direttore dello Human Interaction Laboratory dell’Università di California, è uno scienziato generalmente tenuto in grande considerazione: definito dall’ American Psychological Association uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo, ha dedicato la propria attività allo studio delle emozioni e della loro espressione.

Le sue ricerche portano alla conclusione che il modo di esprimere le emozioni non deriva dalla cultura di appartenenza ma è determinato biologicamente ed è analogo in tutti gli uomini, come ipotizzò molti anni fa Charles Darwin.

Paul Ekman, dopo un’infanzia ed un’adolescenza segnate da gravi conflitti con il padre culminati nell’abbandono della famiglia dopo l’ennesima aggressione paterna, divenne un uomo iracondo. Secondo quanto egli stesso racconta, la sua vita era resa intollerabile, tanto per lui quanto per le persone che lo circondavano, dalle quasi quotidiane esplosioni di un’ira furiosa che s’impadroniva di lui abbattendosi con omerica veemenza sui suoi malcapitati interlocutori.

Il Mind and Life Insitute è un’organizzazione, fondata nel 1985, che si propone si mettere in contatto la scienza occidentale ed il Buddhismo. Promuove incontri ai quali partecipano eminenti scienziati, esponenti buddhisti di spicco e, in prima persona, il Dalai Lama. L’obiettivo degli incontri è duplice: da una parte, portare la tradizione buddhista a conoscenza dello stato dell’arte della ricerca scientifica e confrontarcisi, modificando dove necessario le vedute incompatibili con le conclusioni della scienza (né a me né agli illustri personaggi dei quali vi sto parlando sfugge che il termine conclusione richieda più di un chiarimento); dall’altra, mettere a disposizione della comunità degli scienziati il vastissimo patrimonio di conoscenza sulla mente e sugli stati di coscienza che il mondo buddhista ha accumulato in venticinque secoli di esperienza meditativa, nonché le molte e profonde riflessioni filosofiche condotte nello stesso arco di tempo.

Nell’anno 2000 a Dharamsala, sede indiana del governo tibetano in esilio e residenza del Dalai Lama, ebbe luogo uno di questi incontri, sul tema delle emozioni distruttive. Al convegno fu invitato, come avrete intuito, Paul Ekman, con l’incarico di presentare la concezione darwiniana delle emozioni. Il nostro iracondo scienziato, scettico in materia di religione, non era molto interessato a partecipare all’evento; qui intervenne però la coprotagonista, Eve, la sua quindicenne figlia che aveva un grandissimo desiderio di conoscere di persona il Dalai Lama e caldeggiò la partecipazione. Inoltre, all’incontro era prevista la presenza di Richard Davidson, collega e vecchio amico di Ekman. E così, padre e figlia si misero in viaggio alla volta dell’India.

Durante una delle pause tra le discussioni, Paul, la figlia ed il Dalai Lama si trovarono di fronte. Eve fece una domanda (sul tema dell’ira) alla quale il Dalai Lama rispose in una decina di minuti, tenendo una mano del padre in una delle sue mentre parlava.

Ancora oggi Paul Ekman si chiede che cosa possa essere accaduto in quei dieci minuti, e non cessa di elaborare teorie che possano spiegarlo (senza, beninteso, far ricorso ad alcunché di soprannaturale).

Dopo quel colloquio, il nostro intrattabile amico ha improvvisamente smesso di arrabbiarsi. Familiari e colleghi raccontano unanimemente stupefatti questa radicale trasformazione.

Paul, dal canto suo, dice di aver provato durante il breve incontro una sensazione del tutto sconosciuta, qualcosa come una percezione fisica della “bontà” – accontentiamoci, per il momento, di questo generico sostantivo – del suo interlocutore che si irradiava verso di lui.

Vorrei fare qualche considerazione su questa storia, alla quale ho sommariamente accennato e sulla quale c’è molto altro da raccontare (e – non v’illudete – vi racconterò!).

In primo luogo, risulta evidente la falsità del comune assunto secondo il quale “le persone non cambiano mai”. Le persone possono cambiare, ed anche in modo radicale. Quello di Ekman è solo un piccolo esempio, ma il meccanismo che scatena la collera è radicato, ed a molti si presenta come inarrestabile. Eppure, in questo caso sono bastati pochi minuti per disarticolarlo dopo cinquanta anni di conferme e rafforzamenti. È vero che questo è avvenuto in presenza di una persona nettamente fuori dell’ordinario, che è stata all’origine di molte altre vicende analoghe. È però altrettanto vero che, se la trasformazione è avvenuta, questo vuol dire che era possibile, che nascosti tra i neuroni del professor Ekman c’erano i “fattori” (chiamiamoli così, in modo puramente funzionale, non sapendo di che cosa si tratti) in grado di produrre il cambiamento.

Vorrei poi sottolineare il ruolo prezioso delle persone che, come in questo caso il Dalai Lama, hanno dedicato la propria vita al raggiungimento ed alla diffusione di uno stato di coscienza superiore. C’è un frequentatissimo luogo comune secondo il quale i buddhisti, ed in genere le persone dedite a pratiche meditative, si isolano in una loro realtà personale, diventando indifferenti alla sofferenza degli altri. Mi è capitato pochi giorni fa di leggere una battuta che sosteneva appunto questo in un libro di una scrittrice che apprezzo molto, Alicia Giménez-Bartlett, donna di cultura elevata, docente universitaria e scrittrice di grande successo (El silencio de los claustros). Eppure, questa concezione dimostra la profonda ignoranza che regna in Occidente sulla cultura orientale. Nulla è più lontano dal vero. Il buddhista felice, capace di chiudersi in meditazione per ore provando gioie sconosciute ai più, è proprio colui che sa riconoscere ed alleviare, a volte solo con uno sguardo, una parola o il contatto di una mano, il dolore altrui. Uno dei suoi modelli ideali è quello del “bodhisattva”, l’uomo che avendo raggiunto il grado più alto di beatitudine lo lascia, per ritornare purificato in mezzo agli altri che soffrono, e trasmettere loro ciò che ha faticosamente conquistato.

Ma adesso, per non farvi arrabbiare, mi fermo e vi do appuntamento alla prossima puntata.

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Un uomo felice – 3

 

(segue Un uomo felice – 2)

Oggi comincerò a raccontarvi quello che ho scoperto partendo dalla lettura di Plaidoyer pour le bonheur (di questo libro esiste anche una traduzione italiana, Il gusto di essere felici, editore Sperling Kupfer).

Si tratta di una scoperta che credo possa interessare non solo per il suo contenuto, ma anche per il modo nel quale è avvenuta, e fornire spunti di riflessione su come idee, convinzioni e decisioni entrino nella nostra mente.

Quando ho iniziato la lettura ignoravo pressoché tutto del Buddhismo. Avevo letto qualche pagina di introduzione generale, che metteva insieme approssimativi concetti senza trasmettere nulla dell’essenziale. Molti di noi hanno sperimentato la differenza tra la sommaria trattazione enciclopedica di un argomento fatta in modo astratto, concettuale e sintetico e quella fatta da chi conosce a fondo, vive e sente un argomento. Il mio professore di latino e greco del liceo era innamorato di Catullo e ne aveva una conoscenza profonda. Un giorno si lanciò in una carrellata di un’intera ora sui suoi versi, alternando la recitazione (a memoria, ovviamente) alle considerazioni e spiegazioni sulla sua bellezza. Rimasi incantato, e da allora quei versi hanno avuto per me un significato radicalmente diverso da quello che può trovare chi è stato sottoposto a pedanti dissertazioni sui metri, vuote disquisizioni sui contenuti e letture stentate ed incomprese.

Analogamente, leggere le parole di un uomo che ha trasformato se stesso cambiando radicalmente vita ed ha raggiunto uno stato di felicità che le nostre comuni ambizioni non possono neppure farci sfiorare può lasciare una traccia, mentre non vedo come possa farlo un dettagliato saggio da manuale.

Ciò premesso, l’oggetto del libro non è il Buddhismo ma quella “cosa” elusiva e per molti illusoria che è la felicità. Il fatto è che il Buddhismo, come non tutti sanno dalle nostre parti, nasce dalla riflessione sulla sofferenza e sul modo di evitarla; e nasce non da una rivelazione ma dall’ esperienza personale di un uomo, chiamato appunto il Buddha. Quest’ uomo non ha pensato né dichiarato di essere stato illuminato, eletto o generato da una divinità. Si è interrogato sulla sofferenza umana, ed ha pensato molto. Non ha pensato come si pensa in occidente, in modo esclusivamente o prevalentemente logico e discorsivo. Ha acuito invece la concentrazione per poi dirigerla verso la percezione delle verità che costituiscono il fondamento della sofferenza e del suo superamento. Si è trasformato attraverso questa esperienza ed ha compreso che si può raggiungere una visione delle cose nella quale la sofferenza cessa di esistere, e si è dedicato ad insegnarla agli altri.

Considero le parole di Matthieu Ricard non solo una lezione ma anche una testimonianza. Il suo racconto illustra princìpi e ragioni che spingono a modificare le proprie abitudini mentali, ma cita anche casi, alcuni dei quali autobiografici, nei quali questo processo è avvenuto. Descrive esperimenti e ricerche che confermano la validità degli assunti. Il Buddhismo non è solo una filosofia, ma anche una pratica. Né la sola teoria né la sola pratica possono condurre al risultato, ed entrambe sono rigorosamente basate sull’esperienza. Buddha diceva ai discepoli di non credergli sulla parola, ma proponeva a chi era interessato di mettere in pratica i suoi insegnamenti e verificare se producessero i frutti desiderati. Non si tratta infatti solamente di accettare la validità di qualche ragionamento, ma di trasformare se stessi, e questo non ci si può limitare a pensarlo: si deve fare.

Su questo punto si innesta l’unico significato che il termine “fede” può assumere in questa prospettiva: credere alla testimonianza di chi dimostra con i fatti di aver conseguito quei risultati ai quali si aspira. Questo è un concetto di fede critico e laico, del quale non si può fare a meno in nessuna disciplina ed attività umana. Anche le relazioni degli esperimenti di laboratorio richiedono che si creda che i loro autori non le hanno inventate.

Lo so, non ho ancora cominciato a parlare di ciò che Ricard ci racconta. Ma penso che queste premesse siano importanti ed in realtà siano insieme premesse e contenuto. Se partiamo dal presupposto che chi ci racconta di essere felice è un impostore, come potremo mai imparare qualcosa da lui? Per quanto mi riguarda, ho aperto la mente ed ho ascoltato; ho sperimentato qualcosa, ed ho capito che vale la pena di proseguire…

(segue)

    

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Un uomo felice – 2

 

(segue Un uomo felice)

Prima di entrare nel  merito del contenuto del libro Plaidoyer pour le bonheur, vorrei rendervi partecipi di una riflessione che ho fatto dopo averlo letto.

Secondo un abitudinario approccio che spesso adottiamo, la mia mente aveva costruito una storia che suonava così: “Ho visto il titolo di un giornale, l’argomento mi ha colpito ed ho letto l’articolo. Ho quindi pensato che valesse la pena di leggere alcuni libri scritti dalla persona della quale parlava, li ho ordinato e li ho letti. Così ho scoperto Matthieu Ricard, il Buddhismo e la possibilità di affrontare la vita in modo molto diverso da quello dominante nel cosiddetto mondo occidentale del ventunesimo secolo”.

Sembra che fili, vero?

Poiché so che “le cose” non sono mai quello che sembrano al primo sguardo, ho ricostruito la storia da un altro punto di vista: quello di Monsieur Ricard. Costui, come vi ho accennato, era entrato in contatto con il Buddhismo in gioventù, e dopo aver brillantemente concluso gli studi universitari partì per approfondire l’argomento. Dopo diverse vicende decise di farsi monaco. 

In seguito a questa scelta arrivò a provare una felicità profonda, che sapeva impossibile raggiungere vivendo secondo i comuni valori del suo paese e del suo tempo. Volendo mettere le proprie conclusioni a disposizione di chi fosse interessato a conoscerle, scrisse dei libri impostati in modo tale da risultare comprensibili ad un lettore occidentale.

Essendo un uomo di scienza, e trovando fertile terreno negli interessi scientifici dello stesso Dalai Lama, partecipò (tra l’altro) agli esperimenti di Richard Davidson.

Ritenendo che conoscere i risultati di questi esperimenti potesse essere di stimolo a qualcuno, rilasciò delle interviste a giornalisti interessati…

Credo che ormai il risultato del mio cambiamento di prospettiva sia chiaro a tutti: non sono stato io a trovare Matthieu Ricard, ma è stato lui a trovare me!

Limitati dal nostro radicato egocentrismo, tendiamo ad attribuire a noi stessi l’origine, i meriti ed i demeriti di ciò che ci accade, ma la catena degli eventi è infinitamente più lunga di quanto in quest’angusta ottica riusciamo a vedere.

(segue in Un uomo felice – 3)

 

  

 

 

 

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Un uomo felice

Un giorno d’estate del 2008, mentre ero intento ad uno slalom ipertestuale tra le notizie dei giornali, la mia attenzione fu attratta dal titolo L’uomo più felice del mondo. Pur non amando l’enfasi giornalistica ed i titoli ad effetto (per usare un eufemismo), decisi che valeva la pena di dare un’occhiata.

Si parlava di un singolare esperimento, condotto dal neuroscienziato Richard Davidson all’Università del Wisconsin.

L’illustre ricercatore aveva in precedenza cercato di individuare i processi cerebrali che corrispondono agli stati di benessere; impresa non facile, data la difficoltà di definire e, soprattutto, di generare in laboratorio i suddetti stati. Al termine di una serie di esperimenti, scoprì che coloro che si dichiaravano – e si dimostravano – pieni di gioia presentavano uno specifico tipo di attività nella corteccia prefrontale.

Basandosi su questo risultato, Davidson sottopose alla misurazione di quest’attività dei monaci buddhisti che avevano una lunga esperienza nell’esercizio della meditazione. I risultati mostrarono dei valori alti nell’”indicatore della felicità”, ed in alcuni casi dei valori molto alti. Ci fu però uno dei soggetti che fornì un risultato straordinario, molto al di fuori dell’intervallo dei valori ottenuto fino a quel momento: si tratta, appunto, di colui che ha ricevuto (dai giornalisti, non da Davidson!) la grossolana etichetta di “uomo più felice del mondo”. Chi è costui?

Sorprendentemente, non si tratta di un buddhista orientale ma di un francese, la cui storia mi è sembrata meritevole della massima attenzione.

Il suo nome è Matthieu Ricard. Suo padre, conosciuto con lo pseudonimo di Jean-François Revel, era un intellettuale d’alto rango, filosofo, giornalista e politico, entrato poi nell’Académie Française. Matthieu, cresciuto in un ambiente assai favorevole alla formazione di una vasta cultura, era un ragazzo d’ingegno. La sua casa era frequentata da personaggi come Luis Buñuel, Igor Stravinski e Henry Cartier-Bresson. Prese il dottorato in biologia molecolare al Pasteur Institute, allievo di François Jacob.

Il giovane Matthieu entrò in contatto con il Buddhismo attraverso i documentari di Arnaud Desjardins, ed il suo interesse lo portò ad intraprendere il percorso della meditazione, a visitare luoghi ed esponenti del Buddhismo e quindi a diventare monaco e stabilirsi in Nepal nel monastero di Shechen.

Con ogni evidenza, in Francia aveva davanti a sé una vita di scienziato, ricca di possibilità e soddisfazioni. Oggi quest’uomo, oltre a sorprendere i ricercatori, si dichiara felice della scelta di andare a vivere da monaco in Nepal. Ho pensato che fosse opportuno un approfondimento, ed ho ordinato e letto senza indugio due dei suoi libri: Plaidoyer pour le bonheur (Arringa per la felicità) e L’infini dans la paume de la main (L’infinito nel palmo della mano, traduzione del famoso verso di William Blake «Hold infinity in the palm of your hand»: un dialogo con un astrofisico su Buddhismo e scienza).

Prima di parlarvi di quello che ho trovato in queste letture, vorrei anticipare un piccolo esperimento che ho fatto in un secondo momento. Sapevo che Ricard aveva scritto, da biologo e prima di diventare monaco, un saggio sulle migrazioni degli animali (Les migrations animales). Poiché l’argomento desta in me un certo sospetto, dovuto all’impostazione assai poco scientifica con la quale l’argomento viene a volte trattato, facendo appello a misteriosi “poteri” degli animali, me ne sono procurato una copia (di seconda mano, trattandosi di un’edizione degli anni sessanta) per verificare la serietà dell’approccio, che ne è uscita completamente confermata. Ricard possedeva una vera formazione scientifica di alto livello, ed a partire da questa intraprese il percorso buddhista. Poiché so bene che il mondo delle filosofie orientali è pieno di pseudosapienti, che si dividono tra i truffatori a caccia di polli che cedano senza opporre resistenza le loro penne e maestri che pontificano pur essendo ben lontani dall’avere i requisiti intellettuali e culturali minimi per insegnare qualcosa, ho cercato di accertarmi, prima di dedicargli tempo ed attenzione, che Matthieu non facesse parte di questo numero.

E con questo, non desiderando abusare catilinescamente della vostra pazienza, per oggi mi fermo rinviando il seguito alla prossima puntata. Ma non fatevi illusioni: ce ne saranno molte!

(segue in Un uomo felice – 2)

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