Punti di vista

 

Torno ai miei pazienti lettori dopo un lunghissimo letargo. A dire il vero, rivedere il blog mi ha fatto sorridere. Sulla sua pagina principale si parla ancora del pettegolezzo della scorsa estate sul cappuccino servito al bancone a Mr. Cameron! Eppure, il mio pensiero non ha mai abbandonato il dialogo che nasce da queste pagine, anche se non si è tradotto in parole – ancorché silenziose – per delle ragioni alle quali vorrei accennare. 

Da quando scrissi del cappuccino mi sono trovato immerso in riflessioni che mi hanno condotto in luoghi del sapere affascinanti, difficili e sorprendenti; questo mi ha sottratto tempo e forze, considerando anche da un lato la difficoltà di dare una struttura a quello che desideravo raccontarvi e dall’altro i frequenti cambiamenti di prospettiva ai quali mi sono trovato di fronte. Ma vi prometto di mettervi presto al corrente.

Oggi vi lascio una riflessione che più volte mi si è presentata alla mente in questi ultimi mesi.

Ci sono tanti vocaboli che terminano con centrismo, ed esprimono atteggiamenti che interpretano i fatti da un certo punto di vista. Dal più piccolo, diffuso e pervasivo, Sua Maestà l’egocentrismo, alle varie forme di etnocentrismo al più ampio – ma quanto limitato! – antropocentrismo. Ci si può sbizzarrire con i neologismi, mettendo al centro qualsiasi cosa.
Eppure, c’è una manifestazione del multiforme atteggiamento che mi sembra sfuggire all’osservazione colpendo anche menti solitamente attente e critiche. Parlo di quello che qualcuno ha chiamato – a mio avviso impropriamente – cronocentrismo, e che è caratterizzato dalla tendenza a sopravvalutare le cosiddette conclusioni della nostra conoscenza, con speciale riferimento a quella scientifica. Oggi pensiamo di sapere molto, e guardiamo con benevola superiorità i grandi ingegni del passato che non disponevano dei nostri strumenti.

La rappresentazione comune della nostra posizione nel tempo – secondo me un vero e proprio bias – ci vede nel punto di arrivo, con il passato alle spalle ed il futuro da nessuna parte. Proviamo a ristrutturare questa prospettiva. Mettiamo nell’asse del tempo un millennio per ogni centimetro, a partire dall’inizio della storia della civiltà umana. Osserviamo il primo metro dell’asse. Noi ci troviamo adesso a tre o quattro centimetri dall’origine (forse qualcuno di più), e facciamo parte di un percorso lunghissimo nel quale siamo appena all’inizio. Tra un solo centimetro (ma probabilmente basterà un millimetro) parleranno della nostra scienza come noi parliamo oggi di quella di Aristotele. Ragazzo intelligente, per carità, ma non possedeva gli strumenti…
Quale follia può farci pensare di trovarci oggi in una condizione diversa?

C’è, ad esempio, un modo di raccontare la storia delle scienze cognitive negli ultimi due secoli che è ormai un luogo comune. Nell’Ottocento – si dice – dominava la fisica, ed il modello della mente parlava di forze e pressioni. Oggi domina l’informatica, ed il modello della mente è quello computazionale, che parla di elaborazione di informazioni. Acuta descrizione. Il problema, però, è che oggi sono quasi tutti convinti che il nostro modello attuale sia quello giusto. Io darei un’occhiata all’asse del tempo, quello lungo un metro… Che diranno le storie delle scienze cognitive tra un centimetro?

Riconoscere che ci troviamo in questa situazione richiede due doti preziose quanto rare: l’umiltà e la capacità di convivere con l’incertezza. Le quali non implicano alcuna svalutazione di quanto facciamo e sappiamo oggi, ma solamente la cognizione del fatto che non si tratta di conclusioni ma di interpretazioni destinate ad essere integrate in nuove interpretazioni più ampie.
Ricordo la splendida metafora del grande Einstein, secondo il quale il progresso della scienza è come la vista che si ha scalando una montagna. Man mano che si sale, ci si accorge che quello che si vedeva in precedenza non era sbagliato, ma era solo una parte del panorama.

Qualcuno pensa seriamente di stare sul cocuzzolo?

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Il cappuccino di Mr. Cameron

 

All’inizio di agosto le cronache si occuparono di un simpatico fatto, avvenuto a Montevarchi, che rese temporaneamente celebre una cameriera per non aver servito il cappuccino al tavolo al primo ministro britannico David Cameron, invitandolo a farlo con le proprie mani.

Molti bar mettono a disposizione tavoli senza servizio: chi vuole può portarci quello che intende consumare seduto. Può piacere o no, ma è un’usanza diffusa.

Nel nostro caso la stampa fu colpita dal fatto che il cliente al quale fu rifiutato il servizio fosse un primo ministro.

Sono stato colpito anch’io dalla notizia, ma per ragioni assai diverse da quelle che hanno spinto tanti giornalisti a parlarne.

La diffusione data al fatto è dovuta all’assiomatico presupposto secondo il quale un primo ministro non è un cliente come gli altri, e gli spetta un servizio speciale. È l’enormità di questo presupposto ad avermi colpito.

Un uomo di governo, come qualsiasi uomo politico, è una persona che ha il compito di servire il suo paese. È assunto a tempo determinato e retribuito dai suoi elettori, e da questi può essere licenziato se, come spesso accade, non adempie adeguatamente il proprio incarico. Ad esempio, alla prossima scadenza contrattuale il sottoscritto licenzierà – pro quota – i suoi attuali governanti (che non ha – pro quota – assunto!). Essere primo ministro è un incarico e non un onore, ed i poteri che la carica attribuisce sono solamente strumenti di lavoro… affermazioni strampalate, eh?

Un bar è un esercizio pubblico, che fornisce a pagamento un servizio. Questo, per definizione, s’intende uguale per tutti. Le qualità, i meriti ed i demeriti, il cosiddetto rango e qualsivoglia altra caratteristica del cliente non c’entrano. Vi prego di notare che non sottovaluto la difficoltà del mestiere di primo ministro. So bene che pochi sono in grado di esercitarlo degnamente, e quei pochi meritano la massima considerazione. La quale non c’entra niente con i cappuccini e non deriva dalla funzione che si esercita, ma da come la si esercita.

Vorrei raccontarvi, in tema di camerieri, clienti privilegiati e mentalità corrente, un fatto che mi accadde molti anni fa a Roma, nei pressi di Piazza Venezia. Lavoravo in quella zona ed andavo spesso a prendere un panino in un certo bar. Un giorno uno zelante cameriere, quando gli indicai quello che volevo, si mostrò titubante. Dopo un attimo di esitazione, mi disse: “Guardi, quello è meglio che non lo prenda, non è molto fresco. Gli altri vanno benissimo!”. Mentre prendevo uno dei panini consigliati, assunse un’espressione complice e furba e fece il capolavoro, aggiungendo: “Magari, se fosse stato uno di passaggio gliel’avrei dato, ma lei è un cliente…”. Bel colpo! Pensando di rendersi gradito, il brillante giovane mi disse che in quel locale si rifilano agli sconosciuti panini stantii. Chissà se si è accorto di avermi anche implicitamente detto che un altro cameriere, non riconoscendomi, ne avrebbe dato uno anche a me. E chissà se si è accorto di non avermi più visto, ed ha collegato la mia scomparsa alla sua luminosa trovata…

Il servilismo, ahinoi, colpisce quotidianamente e diffusamente.

Ma torniamo a Montevarchi.

Nei sullodati articoli sull’argomento, tra i termini più diffusi compaiono gaffe, figuraccia, incidente diplomatico (nientemeno!). Questa terminologia presuppone l’assioma di cui sopra (che il primo ministro non è un cliente qualsiasi) come un dato di fatto ovvio ed incontrovertibile. La cameriera era distratta, e si è poi scusata dicendo di non aver riconosciuto Mr. Cameron. L’idea che Mr. Cameron fosse, come appunto era, un cliente come tutti gli altri, non viene neppure presa in considerazione.

Il Giornale del Friuli recita: Nel suo primo giorno di vacanza con la moglie in Toscana, ieri Cameron è stato trattato alla pari di uno sconosciuto qualunque che entra in un bar ed ordina da bere.

Se poi qualcuno ritenesse seriamente che ad un primo ministro sia dovuto un trattamento speciale, avrebbe l’onere di illustrare i criteri che presiedono all’attribuzione degli onori sovrani. Vedrà presto – se esamina criticamente il principio – in quale pasticcio dialettico è andato ad impaludarsi! Tanto per fare un esempio, ricordo un fatto di cronaca degli anni Settanta, quando un gruppo di camerieri di un autogrill rifiutò di servire il pasto a Giorgio Almirante (spero che sia superfluo manifestare il mio radicale disaccordo sull’inconsulta azione). Vedete come ci può portare lontano la discrezionalità del servizio?

Tornando ancora a Montevarchi, amici che leggete, vorrei sottolineare che il servilismo ed il conformismo sono animali dalla pelle molto dura, sono straordinariamente diffusi in innumerevoli diverse sembianze e sono all’origine di molte catastrofi.

Il Re Sole è morto qualche secolo fa, ma i suoi cortigiani sono più prosperi che mai!

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Le parole per dirlo 2: sukha

 

Sukha: mi sono imbattuto per la prima volta in questa parola leggendo Plaidoyer pour le bonheur, il libro dello scienziato e monaco buddhista Matthieu Ricard del quale vi ho parlato.

È un termine sanscrito, che esprime uno dei concetti di base del Buddhismo. Non ha un corrispettivo in alcuna lingua occidentale, e viene a volte tradotto in italiano con felicità.

Indica uno stato di benessere profondo e stabile, che si riflette in ogni azione di chi lo possiede e gli permette di affrontare gli avvenimenti della vita – piacevoli e spiacevoli – senza esserne turbato.

Ho letto alcuni racconti dei prodigi di sukha nel libro di Ricard. Su alcuni ho fatto delle ricerche. Si tratta di storie che possono sembrare impossibili, e contengono inestimabili insegnamenti. Mi ripropongo di parlarvene.

Come vi ho fatto notare, non esiste un termine sanscrito che corrisponda ad emozione.

Sukha non è un’emozione. È, invece, uno stato contemporaneamente ed inscindibilmente emotivo e cognitivo. Implica una comprensione dei processi mentali, che di norma si acquista attraverso la pratica della meditazione. E qui torniamo all’errore di Cartesio… L’impossibilità di separare l’emozione dalla conoscenza, compresa in India duemilacinquecento anni fa, è una delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. I circuiti neurali della conoscenza e quelli delle emozioni sono strettamente interconnessi e non sono separabili. La nostra cultura è invece dominata dal dilemma “emozione o ragione”, come se si trattasse di concetti distinti e confliggenti, ed arriva talvolta a pretendere che ci siano delle norme matematiche per il comportamento razionale.

Sukha è quindi gioia e nello stesso tempo conoscenza. È un’interpretazione del mondo dalla quale nascono serenità e capacità di affrontare circostanze avverse. Solo la comprensione, non puramente concettuale ma profonda e vissuta, dei meccanismi della nostra mente ci permette di modificare il peso che attribuiamo a ciò che accade; e la felicità e l’infelicità non risiedono in quello che accade, ma nel modo in cui noi lo viviamo.

Sukha non è un ottimismo artificioso ed ingenuo che cerchi di mostrare le cose per quello che non sono. Al contrario, si fonda sul riconoscimento a viso aperto di ciò che effettivamente accade. Non comporta alcuna forzatura di insostenibili stati d’animo euforici.

Non pretendo certo, con questo piccolo articolo, di “spiegare il significato” di sukha, neppure il poco che ho creduto di comprenderne. Sto solo cercando di fornire a chi non ha avuto occasione di trovarlo finora un punto di accesso in un mondo sconfinato. In questa piccola parola confluiscono più di due millenni di riflessioni ed esperienze vissute. Io penso che che valga la pena di approfondirne la conoscenza, ed è quello che sto personalmente facendo. Capire questa parola non è però un atto intellettuale, ma un’esperienza.

Nella cultura occidentale abbiamo studiato molto l’angoscia, e grandissimi artisti l’hanno descritta e raccontata. Abbiamo più parole per raccontare l’angoscia che la felicità.

Non pensate che ampliare il nostro lessico su quel versante dell’esperienza umana sia una buona idea?

 

 

 

 

 

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Le parole per dirlo

 

Le parole che comprendiamo ed usiamo sono il prodotto della cultura nella quale viviamo, e sono a loro volta il mezzo, e contemporaneamente il limite, attraverso il quale la nostra cultura si perpetua.

Ogni lingua ha abbondanza di parole per alcuni argomenti ma ne è povera per altri; e questo rende rispettivamente agevole o difficoltoso il progredire della conoscenza di questi argomenti.

Avete mai provato a descrivere un odore? Se non è uno dei pochi che si riferiscono direttamente ad un oggetto comune, come, per esempio, l’odore del glicine, vi sarà molto difficile se non impossibile. Immaginate questo esperimento: entrate con un amico in una profumeria ed annusate diversi profumi, poi cercate di spiegargli le loro caratteristiche e differenze. Non ci riuscirete. Per qualche profumo potrete trovare qualche termine analogico o metaforico, dicendo che è fresco, intenso, acuto o cose del genere. Si tratta, evidentemente, di termini generici che non sanno indicare la nota specifica delle sensazioni. Se immaginate di proseguire l’esperimento per centinaia di profumi diversi, la resa sarà inevitabile.

La studiosa di odori Sissel Tolaas ha raccolto e catalogato 7800 essenze ed ha proposto la creazione di un apposito dizionario, il Nasalo, per denominare gli odori.

Se paragoniamo la situazione con quella dei colori, ci accorgiamo immediatamente dell’abissale differenza di disponibilità lessicale.

La nostra cultura si interessa poco agli odori e non ha creato termini specifici per differenziarli. Di conseguenza, ad ognuno di noi è difficile ragionare sugli odori ed approfondirne la conoscenza.

È facile non accorgersi di questi fenomeni se si vive acriticamente la cultura nella quale si è nati. Eppure, sono fenomeni che non si limitano certo alla definizione degli odori, ma entrano nella scienza, nella filosofia e nella visione della vita.

Questo è un punto che può portare ad incomprensioni e fraintendimenti quando si viene a contatto con culture lontane nel tempo o nello spazio.

Un aspetto di grande interesse del Buddhismo è la sua articolatissima concezione di… già, di che cosa? La prima parola che si presenta alla mente – e spesso alla carta – è “emozioni”. Emozioni negative e positive, quelle che producono sofferenza e quelle che la riducono.

Ogni studio serio e documentato dell’argomento, però, mette in guardia chi si si accinge ad affrontarlo. Gli stati mentali – ed anche questa locuzione è molto approssimativa – dei quali parla la psicologia buddhista non corrispondono alle nostre emozioni. Comprendono stati che noi chiameremmo cognitivi, vittime sempre del dualismo cartesiano che continuiamo a portare con noi. Viceversa, non esiste, ad esempio, una parola tibetana che possa tradurre “emozione”.

Ma questo non è che il primo gradino delle difficoltà.

Il punto è che il nostro lessico emozionale è straordinariamente povero ed ambiguo. Descrivere le emozioni non fa parte delle occupazioni dominanti della cultura occidentale. Comunicare sulle emozioni è un’impresa davvero ardua.

Penso che prendere coscienza di questi fenomeni sia essenziale per ampliare i nostri orizzonti oltre quello che ci viene quotidianamente proposto, e poter così trarre frutto da millenni di riflessioni ed esperienze che i nostri avi hanno sostanzialmente ignorato fino al secolo scorso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Le ragioni di un appuntamento

 

Nell’articolo L’illusione di saperne di più ho accennato al mio scetticismo sulla possibilità di dividere in modo netto ragione ed emozione. Si tratta, ovviamente, di un argomento sconfinato, del quale è difficile anche soltanto rendere espliciti i termini.

C’è, su questo argomento, un libro di straordinario interesse, che ho letto più volte: L’errore di Cartesio, del grande neuroscienziato portoghese Antonio Damasio. Lo studioso sostiene che l’emozione fa parte integrante del processo decisionale, e la sola ragione non è in grado di produrre comportamenti razionali.

Il punto di partenza della trattazione è il caso di Phineas Gage, l’operaio americano che ebbe un orribile incidente nel 1848, mentre era intento alla posa dei binari per una linea ferroviaria nel Vermont.

A causa di un errore una barra di ferro fu lanciata in aria da una forte carica di esplosivo ed attraversò da parte a parte la testa del povero Phineas che, sorprendentemente, ricominciò a parlare e camminare dopo pochi minuti.

La barra era lunga oltre un metro, pesava sei chili ed aveva un diametro di tre centimetri. Entrata da una guancia, gli aveva attraversato la parte frontale del cervello ed era uscita dal lato superiore del cranio andando poi ad atterrare trenta metri più lontano.

Il medico che soccorse Gage parlò con lui, e riferì di averlo trovato perfettamente lucido ed in grado di rispondere alle sue domande.

Dopo qualche mese, Phineas si era ripreso. Aveva perso l’occhio sinistro, ma parlava e controllava perfettamente i movimenti. Però, non era più lui. Si esprimeva in modo osceno, offendeva, faceva continuamente programmi che poi abbandonava, era ipercritico. Non riuscì più ad adattarsi ad un lavoro. Aveva perso ogni considerazione per le convenzioni sociali, comportandosi in modo autolesionista. Eppure, sembrava che intelligenza, attenzione, memoria e linguaggio fossero rimasti intatti.

Nel 1848 gli strumenti per capire che cosa fosse accaduto erano ovviamente assai limitati.

Damasio fa quindi un salto di oltre un secolo, e ci parla di un suo paziente, che chiama Elliot.

Elliot aveva subito un cambiamento simile a quello di Phineas Gage in seguito ad un tumore al cervello. Da persona equilibrata e capace era diventato instabile, non riusciva a portare a termine le attività che intraprendeva, in una parola era completamente inaffidabile e non era più in grado di curare i propri interessi (quelli che costituiscono l’oggetto del ”comportamento razionale”).

Elliot fu studiato a fondo.

Nei test d’intelligenza (WAIS ed altri) otteneva risultati superiori.

Orientamento, percezione e memoria risultavano eccellenti, e così il linguaggio, la capacità aritmetica e l’attenzione.

Superò tranquillamente i test sulle disfunzioni dei lobi frontali, consistenti nell’attribuzione di figure a categorie.

Riusciva brillantemente a fare stime sulla base di informazioni incomplete.

Fu quindi sottoposto a test di personalità, e mostrò caratteristiche assolutamente nella norma.

Che cosa, dunque, non funzionava?

Damasio si accorse che Elliot parlava delle proprie vicende con assoluto distacco, come se non lo riguardassero. Non mostrava emozioni. Non aveva reazioni di fronte ad immagini raccrapriccianti.

Era forse il deficit emotivo a spiegare la sopravvenuta incapacità decisionale?

Per valutare quest’ipotesi, Damasio sottopose Elliot ad altre prove sulla sua capacità di comprendere situazioni che comportavano la valutazione di convenzioni sociali e valori morali.

Da queste risultò che Elliot sapeva individuare la risposta giusta in situazioni sociali complesse, valutare le conseguenze delle diverse risposte, stabilire come comportarsi per raggiungere determinati obiettivi e prevedere lo svolgimento di situazioni sociali che gli venivano presentate.

Anche la sua “intelligenza sociale” era intatta!

Eppure…

Eppure, al termine di una batteria di questi test, dopo aver esaminato le possibili opzioni di comportamento e valutato correttamente le loro conseguenze, disse: “Anche dopo aver capito tutto questo, io in questa situazione non saprei che fare!”

L’applicazione delle valutazioni che faceva in laboratorio alle vicende della propria vita gli erano rese impossibili dalla mancanza dell’emotività.

Ovvero, per decidere correttamente la logica non basta.

A questo punto voglio citarvi la pagina del libro che mi ha colpito di più.

Dopo spiegazioni sui circuiti cerebrali interessati al processo decisionale e dopo aver esposto la teoria del marcatore somatico, sulla quale non posso qui dilungarmi, Damasio racconta un dialogo vissuto in prima persona con un paziente affetto da una lesione simile a quella di Elliot.

Doveva prendere con lui un appuntamento per una successiva seduta, e propose due possibili date. Il paziente, consultata l’agenda, cominciò ad elaborare ragioni in favore di una data e dell’altra… per oltre mezz’ora! Le considerazioni spaziavano dalla prossimità di altri impegni alle prevedibili condizioni meteorologiche, ed erano inarrestabili.

Alla fine, il povero Damasio lo interruppe suggerendo una delle due giornate, che non trovò resistenza.

Basta rifletterci un po’, amici miei: una “ragione logica” per preferire una delle due date non c’era. Non si trattava della capacità di individuarla, ma della sua stessa esistenza. Sono le esigenze della sopravvivenza che ci obbligano a fare delle sintesi accettabili nelle quali la logica e l’emozione operano simultaneamente, e qui s’innesta la teoria del marcatore somatico.

Ma è venuto il momento di salutarci, e per il momento siete in salvo. A presto!

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L’illusione di saperne di più

La lettura del libro L’illusione di sapere di Massimo Piattelli Palmarini, ricco di riflessioni di notevole interesse, mi ha lasciato una perplessità di fondo.

Il libro tratta dei bias della mente, quelle illusioni cognitive nelle quali cadiamo senza accorgercene e che producono errori di valutazione e quindi di comportamento. Il punto di riferimento del libro è costituito dalle ricerche di Amos Tversky e Daniel Kahnemann.

La mia perplessità nasce da quanto si sostiene nel capitolo sul framing, l’incorniciamento delle scelte che delimita i nostri ragionamenti impedendoci di raggiungere una visione adeguata di un problema.

Il capitolo prende ad esempio la diversa valutazione che diamo a probabilità equivalenti secondo il modo nel quale ci vengono presentate: un gruppo di medici, di fronte ad un intervento chirurgico che produce una mortalità media del 7% nei 5 anni successivi all’operazione, tende a sconsigliarlo, mentre se si dice che l’operazione produce una sopravvivenza media del 93% tende a consigliarlo.

Il 7% negativo viene valutato diversamente dal 93% positivo, pur essendo matematicamente equivalente.

Su questo punto non c’è dubbio: si tratta di un’illusione e di un errore.

L’autore attribuisce l’errore alla mancata applicazione della teoria della decisione razionale, secondo la quale il comportamento razionale deve applicare il principio del valore del vantaggio previsto: un premio di 100 con il 50% di probabilità vale 50.

Qui nasce la mia perplessità.

Indipendentemente dall’errore indotto dalla previsione positiva rispetto a quella negativa, si sostiene che, di fronte alla scelta tra un guadagno sicuro di 750.000 ed un guadagno di 1.000.000 al 75% : “… la teoria del valore atteso imporrebbe … di rimanere perfettamente indifferenti”.

Dietro quest’affermazione si cela secondo me un grave equivoco.

Stiamo parlando di denaro. Semplifichiamo il caso: posso avere un milione sicuro o lanciare una moneta: testa due milioni, croce zero.

L’autore ci dice che le due opzioni si equivalgono.

L’elementare concetto economico di utilità marginale ci dice invece che due milioni non sono il doppio di un milione. Lo sono sotto l’aspetto algebrico, ma non sotto quello economico. Il primo milione consentirebbe alla grande maggioranza degli abitanti del pianeta di risolvere tutti i propri problemi economici, mentre il secondo milione permetterebbe qualche optional in più. La certezza di un bene ha un suo valore economico.

Applicare la teoria del valore del vantaggio previsto a questa situazione è contrario ai principi, privi di bias, del comportamento economico: il valore del denaro non è proporzionale al suo valore numerico.

Il ragionamento diventerebbe corretto se non si trattasse di una scelta una tantum ma ripetibile un grande numero di volte, come nel caso di scommettitori professionali. Nel lungo periodo le due scelte, evidentemente, tendono ad equivalere. Nel libro si parla di scommettitori, ed in quest’ipotesi concordo con l’autore.

L’affermazione che ho citato è però fatta in modo assoluto, come se si trattasse di un principio sempre valido ed applicabile.

Penso che questa convinzione derivi da un’illusione al contrario, quella di poter determinare la razionalità delle scelte con criteri numerici.

È evidentemente vero che se una valutazione probabilistica è alla base di una scelta questa valutazione deve essere matematicamente corretta: giocare al lotto i numeri in ritardo è una sciocchezza.

Non è invece vero che il valore di ciò che cerchiamo di ottenere si possa misurare con criteri esclusivamente numerici: questo vale per tutti i beni economici. Il criterio probabilistico puro può andar bene per le valutazioni di uno speculatore professionale, ma non è certo valido per chi ha un problema immediato da risolvere: per chi ha la necessità di una somma di denaro per pagare un intervento dal quale dipende la sua sopravvivenza non si comporterà molto razionalmente giocandosi a testa e croce una somma doppia di quella che gli occorre, potendo disporre con certezza del necessario.

La pretesa di inquadrare in termini algebrici le nostre scelte è a mio avviso un grave bias, un’illusione di saperne di più, dalla quale dovrebbero guardarsi coloro che si propongono di insegnare a ragionare.

Questo argomento si presta a considerazioni sui meccanismi di base delle nostre scelte, sui quali mi riprometto di tornare presto.

Devo però riconoscere che c’è una persona che, con assoluta coerenza, applica in modo rigoroso la teoria del vantaggio previsto, incarnando l’ideale della razionalità del comportamento ed ottenendo risultati sorprendenti. Per questa persona l’ultimo centesimo vale esattamente quanto il primo, e non c’è framing che possa convincerlo del contrario.

Il suo nome è Paperon de’ Paperoni, e tutti dovremmo seguirne il fulgido esempio!

 

 






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