Le parole per dirlo 4: lessico quotidiano

 

Veniamo al mondo in un luogo ed in un tempo che hanno il loro lessico, e la mappa di questo lessico indirizza non solo le nostre parole ma anche i nostri pensieri e le nostre azioni.

Facciamo una semplice analogia da un argomento diverso dal lessico: le cose che troviamo intorno a noi per strada. Se camminiamo per le vie di una città di questa Italia del 2017, che cosa vedremo? Tra le altre cose, molti negozi di abbigliamento, molti negozi di prodotti e servizi telefonici, molti centri di tatuaggi, molte centri scommesse, molte sale slot, molti estetisti. Troviamo normale che nelle nostre strade si trovi un centro scommesse ad ogni incrocio ed uno di tatuaggi ad ogni rettilineo. Troviamo normale che non ci siano luoghi dove raccogliersi in silenzio e meditare. Questi ci suonano come cose strane, che non riusciamo neppure a visualizzare con precisione. Troviamo normale che ci siano poche biblioteche. E troviamo naturale non leggere libri, non meditare ma farci tatuaggi, scommettere, consumare smartphone come tramezzini, taroccarci per apparire belli… Quello che finiamo per fare dipende da quello che troviamo l’opportunità di fare. Quello che non ci viene presentato, proposto e pubblicizzato dovremmo cercarlo di nostra iniziativa, ma questo lo facciamo solo se in qualche modo ce ne è venuta l’idea; e molte delle nostre idee provengono appunto da altri che girano per le nostre stesse strade.

Con le parole accade lo stesso. Troviamo intorno a noi, e quindi dentro di noi, un lessico molto fornito per descrivere abiti e smartphone, per descrivere il funzionamento di aziende e istituzioni, per descrivere fenomeni naturali e varie tecnologie. Troviamo, però, poche e stentate parole per descrivere i nostri stati mentali, il modo in cui entriamo in relazione con i nostri simili e dissimili, i fattori che ci rendono felici e infelici; e di queste poche parole la maggior parte riguardano stati mentali, interazioni e fenomeni che ci fanno soffrire. Quante volte non sappiamo dare un nome a quello che sentiamo, e rapidamente ne distogliamo lo sguardo finendo per non riconoscerlo!

Ho avuto occasione, recentemente, di sfogliare un testo di studio di una lingua straniera. C’è una sezione lessicale, con la terminologia che permette di trattare gli argomenti che servono ogni giorno, dalla famiglia allo sport, dalla casa alle vacanze. Ci sono dialoghi su ristoranti, acquisti, operazioni bancarie e quant’altro. Il problema di descrivere quello che sentiamo non si pone neppure. Non “serve”. Ci sembra logico che i manuali ignorino ciò che non è di immediata utilità, ma se ci si ferma a riflettere si capisce che non lo è affatto. Impariamo, nella nostra o in un’altra lingua, a usare sms e whatsapp. E poi, che cosa sappiamo scrivere con questi prodigiosi mezzi di comunicazione? Sembra a volte che le parole che usiamo per descrivere il modo in cui comunichiamo siano più di quelle che usiamo per comunicare qualcosa!

Per trattare il problema di come affrontare una scelta difficile, per ragionare sui valori in gioco e sulle nostre reali motivazioni ci mancano spesso le parole, le idee e la stessa volontà di fermarci a riflettere, cercare di capire ed accettare di poter modificare le nostre opinioni e i nostri comportamenti.

Per fare tutto questo bisogna aver imparato ad uscire dalla corrente, indifferenti a quelle che Gauss chiamava “grida dei beoti” (ma, dall’alto del suo genio, non aveva il coraggio di affrontare!), aver imparato che lo spirito del tempo non è la verità, aver imparato ad esplorare strade che qui ed oggi sono poco frequentate ma sono ricche di impronte, vecchie e recenti, dei più grandi uomini…

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Le parole per dirlo 2: sukha

 

Sukha: mi sono imbattuto per la prima volta in questa parola leggendo Plaidoyer pour le bonheur, il libro dello scienziato e monaco buddhista Matthieu Ricard del quale vi ho parlato.

È un termine sanscrito, che esprime uno dei concetti di base del Buddhismo. Non ha un corrispettivo in alcuna lingua occidentale, e viene a volte tradotto in italiano con felicità.

Indica uno stato di benessere profondo e stabile, che si riflette in ogni azione di chi lo possiede e gli permette di affrontare gli avvenimenti della vita – piacevoli e spiacevoli – senza esserne turbato.

Ho letto alcuni racconti dei prodigi di sukha nel libro di Ricard. Su alcuni ho fatto delle ricerche. Si tratta di storie che possono sembrare impossibili, e contengono inestimabili insegnamenti. Mi ripropongo di parlarvene.

Come vi ho fatto notare, non esiste un termine sanscrito che corrisponda ad emozione.

Sukha non è un’emozione. È, invece, uno stato contemporaneamente ed inscindibilmente emotivo e cognitivo. Implica una comprensione dei processi mentali, che di norma si acquista attraverso la pratica della meditazione. E qui torniamo all’errore di Cartesio… L’impossibilità di separare l’emozione dalla conoscenza, compresa in India duemilacinquecento anni fa, è una delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. I circuiti neurali della conoscenza e quelli delle emozioni sono strettamente interconnessi e non sono separabili. La nostra cultura è invece dominata dal dilemma “emozione o ragione”, come se si trattasse di concetti distinti e confliggenti, ed arriva talvolta a pretendere che ci siano delle norme matematiche per il comportamento razionale.

Sukha è quindi gioia e nello stesso tempo conoscenza. È un’interpretazione del mondo dalla quale nascono serenità e capacità di affrontare circostanze avverse. Solo la comprensione, non puramente concettuale ma profonda e vissuta, dei meccanismi della nostra mente ci permette di modificare il peso che attribuiamo a ciò che accade; e la felicità e l’infelicità non risiedono in quello che accade, ma nel modo in cui noi lo viviamo.

Sukha non è un ottimismo artificioso ed ingenuo che cerchi di mostrare le cose per quello che non sono. Al contrario, si fonda sul riconoscimento a viso aperto di ciò che effettivamente accade. Non comporta alcuna forzatura di insostenibili stati d’animo euforici.

Non pretendo certo, con questo piccolo articolo, di “spiegare il significato” di sukha, neppure il poco che ho creduto di comprenderne. Sto solo cercando di fornire a chi non ha avuto occasione di trovarlo finora un punto di accesso in un mondo sconfinato. In questa piccola parola confluiscono più di due millenni di riflessioni ed esperienze vissute. Io penso che che valga la pena di approfondirne la conoscenza, ed è quello che sto personalmente facendo. Capire questa parola non è però un atto intellettuale, ma un’esperienza.

Nella cultura occidentale abbiamo studiato molto l’angoscia, e grandissimi artisti l’hanno descritta e raccontata. Abbiamo più parole per raccontare l’angoscia che la felicità.

Non pensate che ampliare il nostro lessico su quel versante dell’esperienza umana sia una buona idea?

 

 

 

 

 

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Le parole per dirlo

 

Le parole che comprendiamo ed usiamo sono il prodotto della cultura nella quale viviamo, e sono a loro volta il mezzo, e contemporaneamente il limite, attraverso il quale la nostra cultura si perpetua.

Ogni lingua ha abbondanza di parole per alcuni argomenti ma ne è povera per altri; e questo rende rispettivamente agevole o difficoltoso il progredire della conoscenza di questi argomenti.

Avete mai provato a descrivere un odore? Se non è uno dei pochi che si riferiscono direttamente ad un oggetto comune, come, per esempio, l’odore del glicine, vi sarà molto difficile se non impossibile. Immaginate questo esperimento: entrate con un amico in una profumeria ed annusate diversi profumi, poi cercate di spiegargli le loro caratteristiche e differenze. Non ci riuscirete. Per qualche profumo potrete trovare qualche termine analogico o metaforico, dicendo che è fresco, intenso, acuto o cose del genere. Si tratta, evidentemente, di termini generici che non sanno indicare la nota specifica delle sensazioni. Se immaginate di proseguire l’esperimento per centinaia di profumi diversi, la resa sarà inevitabile.

La studiosa di odori Sissel Tolaas ha raccolto e catalogato 7800 essenze ed ha proposto la creazione di un apposito dizionario, il Nasalo, per denominare gli odori.

Se paragoniamo la situazione con quella dei colori, ci accorgiamo immediatamente dell’abissale differenza di disponibilità lessicale.

La nostra cultura si interessa poco agli odori e non ha creato termini specifici per differenziarli. Di conseguenza, ad ognuno di noi è difficile ragionare sugli odori ed approfondirne la conoscenza.

È facile non accorgersi di questi fenomeni se si vive acriticamente la cultura nella quale si è nati. Eppure, sono fenomeni che non si limitano certo alla definizione degli odori, ma entrano nella scienza, nella filosofia e nella visione della vita.

Questo è un punto che può portare ad incomprensioni e fraintendimenti quando si viene a contatto con culture lontane nel tempo o nello spazio.

Un aspetto di grande interesse del Buddhismo è la sua articolatissima concezione di… già, di che cosa? La prima parola che si presenta alla mente – e spesso alla carta – è “emozioni”. Emozioni negative e positive, quelle che producono sofferenza e quelle che la riducono.

Ogni studio serio e documentato dell’argomento, però, mette in guardia chi si si accinge ad affrontarlo. Gli stati mentali – ed anche questa locuzione è molto approssimativa – dei quali parla la psicologia buddhista non corrispondono alle nostre emozioni. Comprendono stati che noi chiameremmo cognitivi, vittime sempre del dualismo cartesiano che continuiamo a portare con noi. Viceversa, non esiste, ad esempio, una parola tibetana che possa tradurre “emozione”.

Ma questo non è che il primo gradino delle difficoltà.

Il punto è che il nostro lessico emozionale è straordinariamente povero ed ambiguo. Descrivere le emozioni non fa parte delle occupazioni dominanti della cultura occidentale. Comunicare sulle emozioni è un’impresa davvero ardua.

Penso che prendere coscienza di questi fenomeni sia essenziale per ampliare i nostri orizzonti oltre quello che ci viene quotidianamente proposto, e poter così trarre frutto da millenni di riflessioni ed esperienze che i nostri avi hanno sostanzialmente ignorato fino al secolo scorso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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