Punti di vista

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Torno ai miei pazienti lettori dopo un lunghissimo letargo. A dire il vero, rivedere il blog mi ha fatto sorridere. Sulla sua pagina principale si parla ancora del pettegolezzo della scorsa estate sul cappuccino servito al bancone a Mr. Cameron! Eppure, il mio pensiero non ha mai abbandonato il dialogo che nasce da queste pagine, anche se non si è tradotto in parole – ancorché silenziose – per delle ragioni alle quali vorrei accennare. 

Da quando scrissi del cappuccino mi sono trovato immerso in riflessioni che mi hanno condotto in luoghi del sapere affascinanti, difficili e sorprendenti; questo mi ha sottratto tempo e forze, considerando anche da un lato la difficoltà di dare una struttura a quello che desideravo raccontarvi e dall’altro i frequenti cambiamenti di prospettiva ai quali mi sono trovato di fronte. Ma vi prometto di mettervi presto al corrente.

Oggi vi lascio una riflessione che più volte mi si è presentata alla mente in questi ultimi mesi.

Ci sono tanti vocaboli che terminano con centrismo, ed esprimono atteggiamenti che interpretano i fatti da un certo punto di vista. Dal più piccolo, diffuso e pervasivo, Sua Maestà l’egocentrismo, alle varie forme di etnocentrismo al più ampio – ma quanto limitato! – antropocentrismo. Ci si può sbizzarrire con i neologismi, mettendo al centro qualsiasi cosa.
Eppure, c’è una manifestazione del multiforme atteggiamento che mi sembra sfuggire all’osservazione colpendo anche menti solitamente attente e critiche. Parlo di quello che qualcuno ha chiamato – a mio avviso impropriamente – cronocentrismo, e che è caratterizzato dalla tendenza a sopravvalutare le cosiddette conclusioni della nostra conoscenza, con speciale riferimento a quella scientifica. Oggi pensiamo di sapere molto, e guardiamo con benevola superiorità i grandi ingegni del passato che non disponevano dei nostri strumenti.

La rappresentazione comune della nostra posizione nel tempo – secondo me un vero e proprio bias – ci vede nel punto di arrivo, con il passato alle spalle ed il futuro da nessuna parte. Proviamo a ristrutturare questa prospettiva. Mettiamo nell’asse del tempo un millennio per ogni centimetro, a partire dall’inizio della storia della civiltà umana. Osserviamo il primo metro dell’asse. Noi ci troviamo adesso a tre o quattro centimetri dall’origine (forse qualcuno di più), e facciamo parte di un percorso lunghissimo nel quale siamo appena all’inizio. Tra un solo centimetro (ma probabilmente basterà un millimetro) parleranno della nostra scienza come noi parliamo oggi di quella di Aristotele. Ragazzo intelligente, per carità, ma non possedeva gli strumenti…
Quale follia può farci pensare di trovarci oggi in una condizione diversa?

C’è, ad esempio, un modo di raccontare la storia delle scienze cognitive negli ultimi due secoli che è ormai un luogo comune. Nell’Ottocento – si dice – dominava la fisica, ed il modello della mente parlava di forze e pressioni. Oggi domina l’informatica, ed il modello della mente è quello computazionale, che parla di elaborazione di informazioni. Acuta descrizione. Il problema, però, è che oggi sono quasi tutti convinti che il nostro modello attuale sia quello giusto. Io darei un’occhiata all’asse del tempo, quello lungo un metro… Che diranno le storie delle scienze cognitive tra un centimetro?

Riconoscere che ci troviamo in questa situazione richiede due doti preziose quanto rare: l’umiltà e la capacità di convivere con l’incertezza. Le quali non implicano alcuna svalutazione di quanto facciamo e sappiamo oggi, ma solamente la cognizione del fatto che non si tratta di conclusioni ma di interpretazioni destinate ad essere integrate in nuove interpretazioni più ampie.
Ricordo la splendida metafora del grande Einstein, secondo il quale il progresso della scienza è come la vista che si ha scalando una montagna. Man mano che si sale, ci si accorge che quello che si vedeva in precedenza non era sbagliato, ma era solo una parte del panorama.

Qualcuno pensa seriamente di stare sul cocuzzolo?

3 comments

  1. Con colpevole ritardo rispetto alla pubblicazione di questo eccellente post, mi inserisco per una breve riflessione…

    No, certo nessuno provvisto di buon senno potrebbe pensare di trovarsi in una posizione privilegiata per l'osservazione della storia umana e la sua interpretazione. La storia poi – recente o remota – ci offre tonnellate di esempi in cui, in vari "settori", l'Uomo ha chiaramente mostrato di non aver saputo imparare dal passato.
    Però mi piace pensare che a noi sono concessi strumenti indisponibili per la maggior parte delle generazioni passate. In particolare, mi riferisco all'applicazione del metodo scientifico ai processi cognitivi e, quindi, all'Epistemologia. Popper ci ha mostrato che le nostre idee hanno tanta maggior forza quanto più contengono in se stesse i germi per la loro falsificabilità. Più è facile individuare un metodo per contraddire quanto dico, più le mie affermazioni assumono forza se utilizzando quel metodo non mi si riesce a contraddire…
    Nulla naturalmente ci assicura che sapremo riconoscere le nuove idee rivoluzionarie quando arriveranno. E' soprattutto una questione di atteggiamento e, perciò, occorre essere opportunamente allenati ad accogliere l'Altro con tutto ciò che ci dice. Si tratta, in sostanza, di un cammino che non giungerà mai alla Verità, ma (si spera) ci si avvicinerà asintoticamente.
    Qualcuno, del resto, ha detto che progresso vuol dire sostituire i vecchi errori con quelli nuovi…

    • Sono d’accordo con te, Roberto.
      Disponiamo certamente di strumenti ignoti alle generazioni precedenti.
      Non intendo certo sostenere che la nostra conoscenza non progredisca, ma solo sottolineare che non abbiamo alcuna ragione per pensare di sapere quasi tutto ed essere ad un passo dalla “verità”. A rigore, non esistono “fatti scientificamente accertati”, ma solo ipotesi non (ancora) falsificate. La stessa identificazione di un “fatto” da dimostrare è arbitraria, e soggetta ad essere superata da una prospettiva diversa sullo stesso fatto (come ad esempio è accaduto alle leggi di Newton in seguito alla scoperta della relatività).
      Credo quindi che l’atteggiamento più consono ad un vero scienziato (o filosofo) sia l’umiltà, che vedo invece poco praticata, mentre mi sembra che abbondi un’arroganza non solo infondata ma controproducente.

      • Ruggero Forniti

        Forse i nostri scienziati hanno confuso la posizione super partes sugli 'eventi' con un atteggiamento di superiorità rispetto ad essi.
        Forse a furia di cercare di comprendere (nel senso fisico del termine) il contesto generale, essi assumono un distacco esagerato dagli eventi in sé stessi, dimenticando anche la loro stessa umana fallacità.
        Forse il bias di cui parli si manifesta anche in questa supponenza arrogante che poco ha a che fare con l'umiltà del ricercatore o forse è la dilagante assertività del pensiero informatico che, di nuovo, falsa la visione del paradigma scientifico riducendolo alla mera conquista del cucuzzolo della montagna e che ci impedisce di ipotizzare che, in realtà, quello possa non essere il cucuzzolo vero e proprio, ma solo il picco di passaggio di una scalata, che io spero infinita.
        Forse…

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