Le ragioni di un appuntamento

 

Nell’articolo L’illusione di saperne di più ho accennato al mio scetticismo sulla possibilità di dividere in modo netto ragione ed emozione. Si tratta, ovviamente, di un argomento sconfinato, del quale è difficile anche soltanto rendere espliciti i termini.

C’è, su questo argomento, un libro di straordinario interesse, che ho letto più volte: L’errore di Cartesio, del grande neuroscienziato portoghese Antonio Damasio. Lo studioso sostiene che l’emozione fa parte integrante del processo decisionale, e la sola ragione non è in grado di produrre comportamenti razionali.

Il punto di partenza della trattazione è il caso di Phineas Gage, l’operaio americano che ebbe un orribile incidente nel 1848, mentre era intento alla posa dei binari per una linea ferroviaria nel Vermont.

A causa di un errore una barra di ferro fu lanciata in aria da una forte carica di esplosivo ed attraversò da parte a parte la testa del povero Phineas che, sorprendentemente, ricominciò a parlare e camminare dopo pochi minuti.

La barra era lunga oltre un metro, pesava sei chili ed aveva un diametro di tre centimetri. Entrata da una guancia, gli aveva attraversato la parte frontale del cervello ed era uscita dal lato superiore del cranio andando poi ad atterrare trenta metri più lontano.

Il medico che soccorse Gage parlò con lui, e riferì di averlo trovato perfettamente lucido ed in grado di rispondere alle sue domande.

Dopo qualche mese, Phineas si era ripreso. Aveva perso l’occhio sinistro, ma parlava e controllava perfettamente i movimenti. Però, non era più lui. Si esprimeva in modo osceno, offendeva, faceva continuamente programmi che poi abbandonava, era ipercritico. Non riuscì più ad adattarsi ad un lavoro. Aveva perso ogni considerazione per le convenzioni sociali, comportandosi in modo autolesionista. Eppure, sembrava che intelligenza, attenzione, memoria e linguaggio fossero rimasti intatti.

Nel 1848 gli strumenti per capire che cosa fosse accaduto erano ovviamente assai limitati.

Damasio fa quindi un salto di oltre un secolo, e ci parla di un suo paziente, che chiama Elliot.

Elliot aveva subito un cambiamento simile a quello di Phineas Gage in seguito ad un tumore al cervello. Da persona equilibrata e capace era diventato instabile, non riusciva a portare a termine le attività che intraprendeva, in una parola era completamente inaffidabile e non era più in grado di curare i propri interessi (quelli che costituiscono l’oggetto del ”comportamento razionale”).

Elliot fu studiato a fondo.

Nei test d’intelligenza (WAIS ed altri) otteneva risultati superiori.

Orientamento, percezione e memoria risultavano eccellenti, e così il linguaggio, la capacità aritmetica e l’attenzione.

Superò tranquillamente i test sulle disfunzioni dei lobi frontali, consistenti nell’attribuzione di figure a categorie.

Riusciva brillantemente a fare stime sulla base di informazioni incomplete.

Fu quindi sottoposto a test di personalità, e mostrò caratteristiche assolutamente nella norma.

Che cosa, dunque, non funzionava?

Damasio si accorse che Elliot parlava delle proprie vicende con assoluto distacco, come se non lo riguardassero. Non mostrava emozioni. Non aveva reazioni di fronte ad immagini raccrapriccianti.

Era forse il deficit emotivo a spiegare la sopravvenuta incapacità decisionale?

Per valutare quest’ipotesi, Damasio sottopose Elliot ad altre prove sulla sua capacità di comprendere situazioni che comportavano la valutazione di convenzioni sociali e valori morali.

Da queste risultò che Elliot sapeva individuare la risposta giusta in situazioni sociali complesse, valutare le conseguenze delle diverse risposte, stabilire come comportarsi per raggiungere determinati obiettivi e prevedere lo svolgimento di situazioni sociali che gli venivano presentate.

Anche la sua “intelligenza sociale” era intatta!

Eppure…

Eppure, al termine di una batteria di questi test, dopo aver esaminato le possibili opzioni di comportamento e valutato correttamente le loro conseguenze, disse: “Anche dopo aver capito tutto questo, io in questa situazione non saprei che fare!”

L’applicazione delle valutazioni che faceva in laboratorio alle vicende della propria vita gli erano rese impossibili dalla mancanza dell’emotività.

Ovvero, per decidere correttamente la logica non basta.

A questo punto voglio citarvi la pagina del libro che mi ha colpito di più.

Dopo spiegazioni sui circuiti cerebrali interessati al processo decisionale e dopo aver esposto la teoria del marcatore somatico, sulla quale non posso qui dilungarmi, Damasio racconta un dialogo vissuto in prima persona con un paziente affetto da una lesione simile a quella di Elliot.

Doveva prendere con lui un appuntamento per una successiva seduta, e propose due possibili date. Il paziente, consultata l’agenda, cominciò ad elaborare ragioni in favore di una data e dell’altra… per oltre mezz’ora! Le considerazioni spaziavano dalla prossimità di altri impegni alle prevedibili condizioni meteorologiche, ed erano inarrestabili.

Alla fine, il povero Damasio lo interruppe suggerendo una delle due giornate, che non trovò resistenza.

Basta rifletterci un po’, amici miei: una “ragione logica” per preferire una delle due date non c’era. Non si trattava della capacità di individuarla, ma della sua stessa esistenza. Sono le esigenze della sopravvivenza che ci obbligano a fare delle sintesi accettabili nelle quali la logica e l’emozione operano simultaneamente, e qui s’innesta la teoria del marcatore somatico.

Ma è venuto il momento di salutarci, e per il momento siete in salvo. A presto!

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L’illusione di saperne di più

La lettura del libro L’illusione di sapere di Massimo Piattelli Palmarini, ricco di riflessioni di notevole interesse, mi ha lasciato una perplessità di fondo.

Il libro tratta dei bias della mente, quelle illusioni cognitive nelle quali cadiamo senza accorgercene e che producono errori di valutazione e quindi di comportamento. Il punto di riferimento del libro è costituito dalle ricerche di Amos Tversky e Daniel Kahnemann.

La mia perplessità nasce da quanto si sostiene nel capitolo sul framing, l’incorniciamento delle scelte che delimita i nostri ragionamenti impedendoci di raggiungere una visione adeguata di un problema.

Il capitolo prende ad esempio la diversa valutazione che diamo a probabilità equivalenti secondo il modo nel quale ci vengono presentate: un gruppo di medici, di fronte ad un intervento chirurgico che produce una mortalità media del 7% nei 5 anni successivi all’operazione, tende a sconsigliarlo, mentre se si dice che l’operazione produce una sopravvivenza media del 93% tende a consigliarlo.

Il 7% negativo viene valutato diversamente dal 93% positivo, pur essendo matematicamente equivalente.

Su questo punto non c’è dubbio: si tratta di un’illusione e di un errore.

L’autore attribuisce l’errore alla mancata applicazione della teoria della decisione razionale, secondo la quale il comportamento razionale deve applicare il principio del valore del vantaggio previsto: un premio di 100 con il 50% di probabilità vale 50.

Qui nasce la mia perplessità.

Indipendentemente dall’errore indotto dalla previsione positiva rispetto a quella negativa, si sostiene che, di fronte alla scelta tra un guadagno sicuro di 750.000 ed un guadagno di 1.000.000 al 75% : “… la teoria del valore atteso imporrebbe … di rimanere perfettamente indifferenti”.

Dietro quest’affermazione si cela secondo me un grave equivoco.

Stiamo parlando di denaro. Semplifichiamo il caso: posso avere un milione sicuro o lanciare una moneta: testa due milioni, croce zero.

L’autore ci dice che le due opzioni si equivalgono.

L’elementare concetto economico di utilità marginale ci dice invece che due milioni non sono il doppio di un milione. Lo sono sotto l’aspetto algebrico, ma non sotto quello economico. Il primo milione consentirebbe alla grande maggioranza degli abitanti del pianeta di risolvere tutti i propri problemi economici, mentre il secondo milione permetterebbe qualche optional in più. La certezza di un bene ha un suo valore economico.

Applicare la teoria del valore del vantaggio previsto a questa situazione è contrario ai principi, privi di bias, del comportamento economico: il valore del denaro non è proporzionale al suo valore numerico.

Il ragionamento diventerebbe corretto se non si trattasse di una scelta una tantum ma ripetibile un grande numero di volte, come nel caso di scommettitori professionali. Nel lungo periodo le due scelte, evidentemente, tendono ad equivalere. Nel libro si parla di scommettitori, ed in quest’ipotesi concordo con l’autore.

L’affermazione che ho citato è però fatta in modo assoluto, come se si trattasse di un principio sempre valido ed applicabile.

Penso che questa convinzione derivi da un’illusione al contrario, quella di poter determinare la razionalità delle scelte con criteri numerici.

È evidentemente vero che se una valutazione probabilistica è alla base di una scelta questa valutazione deve essere matematicamente corretta: giocare al lotto i numeri in ritardo è una sciocchezza.

Non è invece vero che il valore di ciò che cerchiamo di ottenere si possa misurare con criteri esclusivamente numerici: questo vale per tutti i beni economici. Il criterio probabilistico puro può andar bene per le valutazioni di uno speculatore professionale, ma non è certo valido per chi ha un problema immediato da risolvere: per chi ha la necessità di una somma di denaro per pagare un intervento dal quale dipende la sua sopravvivenza non si comporterà molto razionalmente giocandosi a testa e croce una somma doppia di quella che gli occorre, potendo disporre con certezza del necessario.

La pretesa di inquadrare in termini algebrici le nostre scelte è a mio avviso un grave bias, un’illusione di saperne di più, dalla quale dovrebbero guardarsi coloro che si propongono di insegnare a ragionare.

Questo argomento si presta a considerazioni sui meccanismi di base delle nostre scelte, sui quali mi riprometto di tornare presto.

Devo però riconoscere che c’è una persona che, con assoluta coerenza, applica in modo rigoroso la teoria del vantaggio previsto, incarnando l’ideale della razionalità del comportamento ed ottenendo risultati sorprendenti. Per questa persona l’ultimo centesimo vale esattamente quanto il primo, e non c’è framing che possa convincerlo del contrario.

Il suo nome è Paperon de’ Paperoni, e tutti dovremmo seguirne il fulgido esempio!

 

 






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Le arrabbiature di Paul Ekman

 

La storia che mi accingo a raccontarvi ha tre protagonisti: Paul Ekman (con la figlia), il Mind and Life Institute ed il Dalai Lama.

Paul Ekman, direttore dello Human Interaction Laboratory dell’Università di California, è uno scienziato generalmente tenuto in grande considerazione: definito dall’ American Psychological Association uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo, ha dedicato la propria attività allo studio delle emozioni e della loro espressione.

Le sue ricerche portano alla conclusione che il modo di esprimere le emozioni non deriva dalla cultura di appartenenza ma è determinato biologicamente ed è analogo in tutti gli uomini, come ipotizzò molti anni fa Charles Darwin.

Paul Ekman, dopo un’infanzia ed un’adolescenza segnate da gravi conflitti con il padre culminati nell’abbandono della famiglia dopo l’ennesima aggressione paterna, divenne un uomo iracondo. Secondo quanto egli stesso racconta, la sua vita era resa intollerabile, tanto per lui quanto per le persone che lo circondavano, dalle quasi quotidiane esplosioni di un’ira furiosa che s’impadroniva di lui abbattendosi con omerica veemenza sui suoi malcapitati interlocutori.

Il Mind and Life Insitute è un’organizzazione, fondata nel 1985, che si propone si mettere in contatto la scienza occidentale ed il Buddhismo. Promuove incontri ai quali partecipano eminenti scienziati, esponenti buddhisti di spicco e, in prima persona, il Dalai Lama. L’obiettivo degli incontri è duplice: da una parte, portare la tradizione buddhista a conoscenza dello stato dell’arte della ricerca scientifica e confrontarcisi, modificando dove necessario le vedute incompatibili con le conclusioni della scienza (né a me né agli illustri personaggi dei quali vi sto parlando sfugge che il termine conclusione richieda più di un chiarimento); dall’altra, mettere a disposizione della comunità degli scienziati il vastissimo patrimonio di conoscenza sulla mente e sugli stati di coscienza che il mondo buddhista ha accumulato in venticinque secoli di esperienza meditativa, nonché le molte e profonde riflessioni filosofiche condotte nello stesso arco di tempo.

Nell’anno 2000 a Dharamsala, sede indiana del governo tibetano in esilio e residenza del Dalai Lama, ebbe luogo uno di questi incontri, sul tema delle emozioni distruttive. Al convegno fu invitato, come avrete intuito, Paul Ekman, con l’incarico di presentare la concezione darwiniana delle emozioni. Il nostro iracondo scienziato, scettico in materia di religione, non era molto interessato a partecipare all’evento; qui intervenne però la coprotagonista, Eve, la sua quindicenne figlia che aveva un grandissimo desiderio di conoscere di persona il Dalai Lama e caldeggiò la partecipazione. Inoltre, all’incontro era prevista la presenza di Richard Davidson, collega e vecchio amico di Ekman. E così, padre e figlia si misero in viaggio alla volta dell’India.

Durante una delle pause tra le discussioni, Paul, la figlia ed il Dalai Lama si trovarono di fronte. Eve fece una domanda (sul tema dell’ira) alla quale il Dalai Lama rispose in una decina di minuti, tenendo una mano del padre in una delle sue mentre parlava.

Ancora oggi Paul Ekman si chiede che cosa possa essere accaduto in quei dieci minuti, e non cessa di elaborare teorie che possano spiegarlo (senza, beninteso, far ricorso ad alcunché di soprannaturale).

Dopo quel colloquio, il nostro intrattabile amico ha improvvisamente smesso di arrabbiarsi. Familiari e colleghi raccontano unanimemente stupefatti questa radicale trasformazione.

Paul, dal canto suo, dice di aver provato durante il breve incontro una sensazione del tutto sconosciuta, qualcosa come una percezione fisica della “bontà” – accontentiamoci, per il momento, di questo generico sostantivo – del suo interlocutore che si irradiava verso di lui.

Vorrei fare qualche considerazione su questa storia, alla quale ho sommariamente accennato e sulla quale c’è molto altro da raccontare (e – non v’illudete – vi racconterò!).

In primo luogo, risulta evidente la falsità del comune assunto secondo il quale “le persone non cambiano mai”. Le persone possono cambiare, ed anche in modo radicale. Quello di Ekman è solo un piccolo esempio, ma il meccanismo che scatena la collera è radicato, ed a molti si presenta come inarrestabile. Eppure, in questo caso sono bastati pochi minuti per disarticolarlo dopo cinquanta anni di conferme e rafforzamenti. È vero che questo è avvenuto in presenza di una persona nettamente fuori dell’ordinario, che è stata all’origine di molte altre vicende analoghe. È però altrettanto vero che, se la trasformazione è avvenuta, questo vuol dire che era possibile, che nascosti tra i neuroni del professor Ekman c’erano i “fattori” (chiamiamoli così, in modo puramente funzionale, non sapendo di che cosa si tratti) in grado di produrre il cambiamento.

Vorrei poi sottolineare il ruolo prezioso delle persone che, come in questo caso il Dalai Lama, hanno dedicato la propria vita al raggiungimento ed alla diffusione di uno stato di coscienza superiore. C’è un frequentatissimo luogo comune secondo il quale i buddhisti, ed in genere le persone dedite a pratiche meditative, si isolano in una loro realtà personale, diventando indifferenti alla sofferenza degli altri. Mi è capitato pochi giorni fa di leggere una battuta che sosteneva appunto questo in un libro di una scrittrice che apprezzo molto, Alicia Giménez-Bartlett, donna di cultura elevata, docente universitaria e scrittrice di grande successo (El silencio de los claustros). Eppure, questa concezione dimostra la profonda ignoranza che regna in Occidente sulla cultura orientale. Nulla è più lontano dal vero. Il buddhista felice, capace di chiudersi in meditazione per ore provando gioie sconosciute ai più, è proprio colui che sa riconoscere ed alleviare, a volte solo con uno sguardo, una parola o il contatto di una mano, il dolore altrui. Uno dei suoi modelli ideali è quello del “bodhisattva”, l’uomo che avendo raggiunto il grado più alto di beatitudine lo lascia, per ritornare purificato in mezzo agli altri che soffrono, e trasmettere loro ciò che ha faticosamente conquistato.

Ma adesso, per non farvi arrabbiare, mi fermo e vi do appuntamento alla prossima puntata.

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Un uomo felice – 3

 

(segue Un uomo felice – 2)

Oggi comincerò a raccontarvi quello che ho scoperto partendo dalla lettura di Plaidoyer pour le bonheur (di questo libro esiste anche una traduzione italiana, Il gusto di essere felici, editore Sperling Kupfer).

Si tratta di una scoperta che credo possa interessare non solo per il suo contenuto, ma anche per il modo nel quale è avvenuta, e fornire spunti di riflessione su come idee, convinzioni e decisioni entrino nella nostra mente.

Quando ho iniziato la lettura ignoravo pressoché tutto del Buddhismo. Avevo letto qualche pagina di introduzione generale, che metteva insieme approssimativi concetti senza trasmettere nulla dell’essenziale. Molti di noi hanno sperimentato la differenza tra la sommaria trattazione enciclopedica di un argomento fatta in modo astratto, concettuale e sintetico e quella fatta da chi conosce a fondo, vive e sente un argomento. Il mio professore di latino e greco del liceo era innamorato di Catullo e ne aveva una conoscenza profonda. Un giorno si lanciò in una carrellata di un’intera ora sui suoi versi, alternando la recitazione (a memoria, ovviamente) alle considerazioni e spiegazioni sulla sua bellezza. Rimasi incantato, e da allora quei versi hanno avuto per me un significato radicalmente diverso da quello che può trovare chi è stato sottoposto a pedanti dissertazioni sui metri, vuote disquisizioni sui contenuti e letture stentate ed incomprese.

Analogamente, leggere le parole di un uomo che ha trasformato se stesso cambiando radicalmente vita ed ha raggiunto uno stato di felicità che le nostre comuni ambizioni non possono neppure farci sfiorare può lasciare una traccia, mentre non vedo come possa farlo un dettagliato saggio da manuale.

Ciò premesso, l’oggetto del libro non è il Buddhismo ma quella “cosa” elusiva e per molti illusoria che è la felicità. Il fatto è che il Buddhismo, come non tutti sanno dalle nostre parti, nasce dalla riflessione sulla sofferenza e sul modo di evitarla; e nasce non da una rivelazione ma dall’ esperienza personale di un uomo, chiamato appunto il Buddha. Quest’ uomo non ha pensato né dichiarato di essere stato illuminato, eletto o generato da una divinità. Si è interrogato sulla sofferenza umana, ed ha pensato molto. Non ha pensato come si pensa in occidente, in modo esclusivamente o prevalentemente logico e discorsivo. Ha acuito invece la concentrazione per poi dirigerla verso la percezione delle verità che costituiscono il fondamento della sofferenza e del suo superamento. Si è trasformato attraverso questa esperienza ed ha compreso che si può raggiungere una visione delle cose nella quale la sofferenza cessa di esistere, e si è dedicato ad insegnarla agli altri.

Considero le parole di Matthieu Ricard non solo una lezione ma anche una testimonianza. Il suo racconto illustra princìpi e ragioni che spingono a modificare le proprie abitudini mentali, ma cita anche casi, alcuni dei quali autobiografici, nei quali questo processo è avvenuto. Descrive esperimenti e ricerche che confermano la validità degli assunti. Il Buddhismo non è solo una filosofia, ma anche una pratica. Né la sola teoria né la sola pratica possono condurre al risultato, ed entrambe sono rigorosamente basate sull’esperienza. Buddha diceva ai discepoli di non credergli sulla parola, ma proponeva a chi era interessato di mettere in pratica i suoi insegnamenti e verificare se producessero i frutti desiderati. Non si tratta infatti solamente di accettare la validità di qualche ragionamento, ma di trasformare se stessi, e questo non ci si può limitare a pensarlo: si deve fare.

Su questo punto si innesta l’unico significato che il termine “fede” può assumere in questa prospettiva: credere alla testimonianza di chi dimostra con i fatti di aver conseguito quei risultati ai quali si aspira. Questo è un concetto di fede critico e laico, del quale non si può fare a meno in nessuna disciplina ed attività umana. Anche le relazioni degli esperimenti di laboratorio richiedono che si creda che i loro autori non le hanno inventate.

Lo so, non ho ancora cominciato a parlare di ciò che Ricard ci racconta. Ma penso che queste premesse siano importanti ed in realtà siano insieme premesse e contenuto. Se partiamo dal presupposto che chi ci racconta di essere felice è un impostore, come potremo mai imparare qualcosa da lui? Per quanto mi riguarda, ho aperto la mente ed ho ascoltato; ho sperimentato qualcosa, ed ho capito che vale la pena di proseguire…

(segue)

    

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Oggetti prestigiosi

 

Uno degli aggettivi più abusati e logori degli ultimi anni è senza dubbio “prestigioso”.

Il tentativo di distinguersi a prezzo di saldo e la pubblicità hanno trovato in quella magica parola un punto d’incontro, attribuendo l’agognata caratteristica agli oggetti più disparati, dalle automobili ai quartieri delle città, dagli abiti ai cibi.

Sono così diventate prestigiose anche alcune carte di credito.

Ricordo una pubblicità che ne mostrava una nella sua versione di più alto rango, che prendeva nome da un pregiato metallo (non ricordo se fosse platino, oro o stronzio).

L’avvolgente messaggio promozionale lasciava intendere che al possessore di così mirabile strumento si sarebbero aperte tutte le porte, rendendolo oggetto di stupita venerazione da parte dei comuni mortali accecati dall’apparizione del fulgido rettangolo di plastica.

Mi venne l’idea di telefonare al numero indicato per scandagliare la profondità degli “esclusivi privilegi” che l’oggetto prometteva ai suoi felici possessori.

Quando nominai all’addetta l’argomento della mia domanda, questa cadde in immediato deliquio. La sua spiegazione esordì con un “Oh, quella…” che rapidamente sfumò, affidando l’ineffabile messaggio a sospiri di soggiogata adorazione.

Le chiesi allora di precisarmi il contenuto degli esclusivi privilegi, e la risposta, dopo un fugace accenno a vaghe coperture assicurative, fu che non in volgari vantaggi economici consisteva il valore della magnifica carta, ma nell’aureola di gloria della quale aveva il potere di circonfondere il suo privilegiato possessore. “Quando lei – anzi, disse Lei – mostra questa carta…” e di nuovo le parole le fecero difetto, cedendo il passo ad una manifestazione non verbale di attonita meraviglia.

Rimase così confermata l’ipotesi che mi aveva spinto a telefonare: il principale privilegio che quella carta elargiva era quello di rimpolpare le tasche della società emittente.

Sono stato, per alcuni anni, portatore sano di una carta di credito allora considerata assai prestigiosa, ancorché né d’oro né d’altri portentosi metalli. Un signore al passo con i tempi che mi avvenne di incontrare in un albergo discretamente stellato trovò l’occasione di mostrarmi la sua collezione di carte. Credo ci fossero tutte quelle disponibili sul mercato. Espresse il parere che la mia fosse senza dubbio la più prestigiosa, qualificando la sua maggiore concorrente con l’abominevole aggettivo “popolare”.

Con il distintissimo strumento di pagamento ebbi un paio d’illuminanti esperienze. 

Frequentavo con una certa assiduità un albergo del Nord Italia, nella periferia di un’opulenta città dove, per ragioni di lavoro, passai alcune settimane. Dopo essere rimasto insoddisfatto di un albergo del centro, una sera mi presentai nell’unico disponibile nella suddetta periferia. Ero perfettamente sconosciuto, era tardi e non c’erano alternative nel raggio di qualche chilometro. So per esperienza che, come è facile immaginare, questa situazione non predispone solitamente gli albergatori a praticare le tariffe migliori. Chiesi il prezzo, che era comunque quello che mi aspettavo, e mi stabilii lì.

Durante un fine settimana tra un viaggio e l’altro, mi avvenne di leggere, sul prestigiosissimo bollettino patinato che la mia carta forniva come esclusivo dono, che l’emittente aveva concordato una convenzione con il mio albergo. Ripetei così l’esperimento già fatto con la carta regale della quale vi ho raccontato poco fa, esperimento consistente in quello che a poker si chiama “vedere”. Anche stavolta non mi ero sbagliato. Il gentile commesso dell’albergo mi rivelò che a me veniva applicata una speciale tariffa scontata (nata nella situazione illustrata poco fa, senza che mi fosse fatta parola della natura favorevole del trattamento), mentre la convenzione si riferiva a quella intera, così che utilizzandola avrei pagato di più.

Questo può contribuire ad illustrare la natura degli “esclusivi vantaggi offerti ad una clientela selezionata”.

Ebbi, però, la fortunata occasione di toccare con mano anche il prestigio emanato da quella straordinaria carta.

Fu in un negozio di abbigliamento del centro storico di Roma, in una di quelle strade che s’incrociano perpendicolarmente tra piazza di Spagna e via del Corso.

Avevo scelto due camicie, e mi accingevo a pagare. Diedi al commesso – o forse era il proprietario – la sullodata carta (senza peraltro aspettarmi che cadesse prostrato ai miei piedi), ed ecco quello che accadde. Il pover’uomo si coprì il viso con le mani, assunse un’espressione terrorizzata e lanciò la testuale invocazione: ”No! Quella no!”. Seguì qualche momento per tornare alla normalità respiratoria, poi il malcapitato mi pregò di pagare in qualsiasi altro modo, dai contanti agli assegni, dal bancomat ad un’altra carta, e si profuse in dettagliate spiegazioni sulle percentuali che la mia carta sottraeva ai suoi incassi ed altri particolari, senza tuttavia dilungarsi sulle ragioni che lo spingevano a mantenere la convenzione che, vistosamente esposta sulle vetrine, magari favoriva l’ingresso di qualche cliente (e chissà se il buon uomo s’è successivamente accorto di averne perso uno).

Dal canto mio, dopo aver tenuto per qualche anno la carta nonostante il suo martellamento pubblicitario e l’insistenza su argomentazioni francamente offensive per i suoi utilizzatori, la ho restituita senza rimpianti e ne uso felicemente due assai meno prestigiose, che però non spaventano nessuno e non mi danno del cretino con puntuale cadenza mensile.

 

 

 

 

 

 

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