Phoenix

 

Ritorno ai lettori di queste pagine dopo una lunghissima assenza, che potrebbe aver dato l’impressione del definitivo abbandono. Parole senza rumore non è morto, e torna a parlare con la consueta discrezione a chi gradisce ascoltarlo.

Il mito della fenice che rinasce dalle proprie ceneri mi affascina. Penso che le nostre valutazioni su ciò che è vivo e ciò che è morto siano spesso affrettate ed approssimative, quando non ingannevoli per un’inconsapevole strategia. Relazioni che sembrano finite tornano a volte a risplendere più luminose che mai, e viceversa.

Non considero mai finita una storia (non ci sono solo le storie d’amore, eh!). Le storie non finiscono mai. Noi stabiliamo arbitrariamente l’inizio e la fine di una storia, senza tener conto di ciò che la precede rendendola possibile e di ciò che la segue e ne consegue, e senza tenere conto del fatto che ignoriamo ciò che accadrà e che potrà “riaprirla”. Senza tener conto del fatto che una storia “finita” vive con noi e cambia con noi ogni giorno, perché la reinterpretiamo in modi diversi scoprendone nuovi aspetti e nuovi significati. Mi considero attualmente in relazione con tutte le persone che ho conosciuto, anche se non le frequento da decenni, e se mi accade (come mi è accaduto) di incontrarne qualcuna trovo del tutto naturale riprendere il discorso apparentemente interrotto. A volte pensiamo di “chiudere con qualcuno”, ma questo non è possibile. Ciò che è avvenuto rimane in noi (e spesso può insegnarci molto, ad onta del nostro orgoglio), e il qualcuno tagliato fuori può rientrare, diventando magari amico in seguito alle mutate circostanze dopo che lo abbiamo affrettatamente fatto oggetto del nostro anatema.

Così, questo blog ha taciuto ma non è finito. Risorgere dalle proprie ceneri è un’idea che trova quotidiana applicazione, anche se non sempre ce ne accorgiamo. Ogni giorno nel mondo qualcuno esce trasformato da un’esperienza, e spesso capita di non accorgersi (o di non voler vedere) che questo accade anche nelle nostre immediate vicinanze.

C’è però una situazione nella quale il mito della fenice si manifesta in modo quasi letterale, e poiché si tratta di un fenomeno che è al centro dei miei attuali interessi vorrei accennarne brevemente, in attesa di tornare sull’argomento (no, non tra altri tre anni, dai!).  Alludo a quelle che vanno sotto il nome di esperienze di premorte, o Near Death Experiences.

Durante queste esperienze accade a volte di vivere quello che si presenta come un contatto con un piano di realtà superiore a quello ordinario e di rivedere la propria vita da una prospettiva radicalmente nuova. Si tratta di esperienze trasformative, dalle quali si può uscire con un sistema di valori e convinzioni opposto a quello che si aveva in precedenza. L’argomento è vastissimo ed ha molteplici aspetti, ed è molto difficile affrontarlo senza lasciarsi guidare dai propri pregiudizi e dalla propria ignoranza. Penso però, e con me lo pensano innumerevoli studiosi che sono entrati in contatto con questi fenomeni, che la conoscenza di quello che accade in quei momenti possa fornirci insegnamenti preziosi, mostrarci aspetti della realtà nella quale viviamo che resterebbero altrimenti celati ed aiutarci ad abbandonare paure infondate e falsi valori che così spesso deturpano la nostra vita e quella di coloro che ci incontrano.

Morte e rinascita sono il tema del mito di Persefone e dell’antica celebrazione dei misteri eleusini. Questo argomento è per molti solo un polveroso ricordo di scuola, qualcosa che si riferisce ad un’epoca lontana nella quale si tenevano oscure liturgie ancora non raggiunte dal lume della ragione. Eppure, lo studio di quello che avveniva ad Eleusi può riservare grandi sorprese. Ci sono passate le menti più grandi della Grecia classica, quegli uomini il cui pensiero ha contribuito a plasmare la civiltà occidentale. In quel luogo si producevano esperienze profonde e trasformative, per dare una pallida idea delle quali prendo in prestito qualche frase di chi ha saputo. Ad esempio Cicerone (De legibus), che fu iniziato ai misteri: “… la tua Atene mi sembra abbia dato origine a molti ed egregi principii umani e religiosi, e li abbia introdotti nella vita umana, ma poi non vi fu nulla di meglio di quei misteri, dai quali, venuti fuori da vita rozza ed inumana, siamo stati educati e addolciti alla civiltà, e quindi si chiamano iniziazioni, perché abbiamo conosciuto i princìpi della vita nella loro vera essenza; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere con gioia, ma anche quello di morire con una speranza migliore…”.  Oppure Pindaro: “… Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio del tutto dato da Zeus…”.  O Sofocle: “… tre volte felici quelli fra i mortali che vanno nell’Ade dopo aver contemplato questi misteri: difatti solo per essi laggiù c’è una vita, mentre per gli altri lì vi sono tutti mali…”

A quanto sembra (non solo dai minimi accenni che ho fatto), avveniva qualcosa che lasciava un segno profondo, ed insegnava tanto a vivere quanto a morire. Con ciò che avveniva ha a che fare il kykeon, la bevanda rituale che si distribuiva al culmine delle celebrazioni. Ma qui il discorso si fa impegnativo, ed oggi volevo solamente accennare ad un tema, quello della morte e della rinascita, che non è solamente letterario, mitologico o storico ma è parte essenziale degli aspetti più significativi della nostra quotidianità. Seneca diceva “cotidie morimur”, moriamo ogni giorno. Mi permetto di aggiungere che ogni giorno possiamo rinascere…

Buon anno, no?

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Punti di vista

 

Torno ai miei pazienti lettori dopo un lunghissimo letargo. A dire il vero, rivedere il blog mi ha fatto sorridere. Sulla sua pagina principale si parla ancora del pettegolezzo della scorsa estate sul cappuccino servito al bancone a Mr. Cameron! Eppure, il mio pensiero non ha mai abbandonato il dialogo che nasce da queste pagine, anche se non si è tradotto in parole – ancorché silenziose – per delle ragioni alle quali vorrei accennare. 

Da quando scrissi del cappuccino mi sono trovato immerso in riflessioni che mi hanno condotto in luoghi del sapere affascinanti, difficili e sorprendenti; questo mi ha sottratto tempo e forze, considerando anche da un lato la difficoltà di dare una struttura a quello che desideravo raccontarvi e dall’altro i frequenti cambiamenti di prospettiva ai quali mi sono trovato di fronte. Ma vi prometto di mettervi presto al corrente.

Oggi vi lascio una riflessione che più volte mi si è presentata alla mente in questi ultimi mesi.

Ci sono tanti vocaboli che terminano con centrismo, ed esprimono atteggiamenti che interpretano i fatti da un certo punto di vista. Dal più piccolo, diffuso e pervasivo, Sua Maestà l’egocentrismo, alle varie forme di etnocentrismo al più ampio – ma quanto limitato! – antropocentrismo. Ci si può sbizzarrire con i neologismi, mettendo al centro qualsiasi cosa.
Eppure, c’è una manifestazione del multiforme atteggiamento che mi sembra sfuggire all’osservazione colpendo anche menti solitamente attente e critiche. Parlo di quello che qualcuno ha chiamato – a mio avviso impropriamente – cronocentrismo, e che è caratterizzato dalla tendenza a sopravvalutare le cosiddette conclusioni della nostra conoscenza, con speciale riferimento a quella scientifica. Oggi pensiamo di sapere molto, e guardiamo con benevola superiorità i grandi ingegni del passato che non disponevano dei nostri strumenti.

La rappresentazione comune della nostra posizione nel tempo – secondo me un vero e proprio bias – ci vede nel punto di arrivo, con il passato alle spalle ed il futuro da nessuna parte. Proviamo a ristrutturare questa prospettiva. Mettiamo nell’asse del tempo un millennio per ogni centimetro, a partire dall’inizio della storia della civiltà umana. Osserviamo il primo metro dell’asse. Noi ci troviamo adesso a tre o quattro centimetri dall’origine (forse qualcuno di più), e facciamo parte di un percorso lunghissimo nel quale siamo appena all’inizio. Tra un solo centimetro (ma probabilmente basterà un millimetro) parleranno della nostra scienza come noi parliamo oggi di quella di Aristotele. Ragazzo intelligente, per carità, ma non possedeva gli strumenti…
Quale follia può farci pensare di trovarci oggi in una condizione diversa?

C’è, ad esempio, un modo di raccontare la storia delle scienze cognitive negli ultimi due secoli che è ormai un luogo comune. Nell’Ottocento – si dice – dominava la fisica, ed il modello della mente parlava di forze e pressioni. Oggi domina l’informatica, ed il modello della mente è quello computazionale, che parla di elaborazione di informazioni. Acuta descrizione. Il problema, però, è che oggi sono quasi tutti convinti che il nostro modello attuale sia quello giusto. Io darei un’occhiata all’asse del tempo, quello lungo un metro… Che diranno le storie delle scienze cognitive tra un centimetro?

Riconoscere che ci troviamo in questa situazione richiede due doti preziose quanto rare: l’umiltà e la capacità di convivere con l’incertezza. Le quali non implicano alcuna svalutazione di quanto facciamo e sappiamo oggi, ma solamente la cognizione del fatto che non si tratta di conclusioni ma di interpretazioni destinate ad essere integrate in nuove interpretazioni più ampie.
Ricordo la splendida metafora del grande Einstein, secondo il quale il progresso della scienza è come la vista che si ha scalando una montagna. Man mano che si sale, ci si accorge che quello che si vedeva in precedenza non era sbagliato, ma era solo una parte del panorama.

Qualcuno pensa seriamente di stare sul cocuzzolo?

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Il cappuccino di Mr. Cameron

 

All’inizio di agosto le cronache si occuparono di un simpatico fatto, avvenuto a Montevarchi, che rese temporaneamente celebre una cameriera per non aver servito il cappuccino al tavolo al primo ministro britannico David Cameron, invitandolo a farlo con le proprie mani.

Molti bar mettono a disposizione tavoli senza servizio: chi vuole può portarci quello che intende consumare seduto. Può piacere o no, ma è un’usanza diffusa.

Nel nostro caso la stampa fu colpita dal fatto che il cliente al quale fu rifiutato il servizio fosse un primo ministro.

Sono stato colpito anch’io dalla notizia, ma per ragioni assai diverse da quelle che hanno spinto tanti giornalisti a parlarne.

La diffusione data al fatto è dovuta all’assiomatico presupposto secondo il quale un primo ministro non è un cliente come gli altri, e gli spetta un servizio speciale. È l’enormità di questo presupposto ad avermi colpito.

Un uomo di governo, come qualsiasi uomo politico, è una persona che ha il compito di servire il suo paese. È assunto a tempo determinato e retribuito dai suoi elettori, e da questi può essere licenziato se, come spesso accade, non adempie adeguatamente il proprio incarico. Ad esempio, alla prossima scadenza contrattuale il sottoscritto licenzierà – pro quota – i suoi attuali governanti (che non ha – pro quota – assunto!). Essere primo ministro è un incarico e non un onore, ed i poteri che la carica attribuisce sono solamente strumenti di lavoro… affermazioni strampalate, eh?

Un bar è un esercizio pubblico, che fornisce a pagamento un servizio. Questo, per definizione, s’intende uguale per tutti. Le qualità, i meriti ed i demeriti, il cosiddetto rango e qualsivoglia altra caratteristica del cliente non c’entrano. Vi prego di notare che non sottovaluto la difficoltà del mestiere di primo ministro. So bene che pochi sono in grado di esercitarlo degnamente, e quei pochi meritano la massima considerazione. La quale non c’entra niente con i cappuccini e non deriva dalla funzione che si esercita, ma da come la si esercita.

Vorrei raccontarvi, in tema di camerieri, clienti privilegiati e mentalità corrente, un fatto che mi accadde molti anni fa a Roma, nei pressi di Piazza Venezia. Lavoravo in quella zona ed andavo spesso a prendere un panino in un certo bar. Un giorno uno zelante cameriere, quando gli indicai quello che volevo, si mostrò titubante. Dopo un attimo di esitazione, mi disse: “Guardi, quello è meglio che non lo prenda, non è molto fresco. Gli altri vanno benissimo!”. Mentre prendevo uno dei panini consigliati, assunse un’espressione complice e furba e fece il capolavoro, aggiungendo: “Magari, se fosse stato uno di passaggio gliel’avrei dato, ma lei è un cliente…”. Bel colpo! Pensando di rendersi gradito, il brillante giovane mi disse che in quel locale si rifilano agli sconosciuti panini stantii. Chissà se si è accorto di avermi anche implicitamente detto che un altro cameriere, non riconoscendomi, ne avrebbe dato uno anche a me. E chissà se si è accorto di non avermi più visto, ed ha collegato la mia scomparsa alla sua luminosa trovata…

Il servilismo, ahinoi, colpisce quotidianamente e diffusamente.

Ma torniamo a Montevarchi.

Nei sullodati articoli sull’argomento, tra i termini più diffusi compaiono gaffe, figuraccia, incidente diplomatico (nientemeno!). Questa terminologia presuppone l’assioma di cui sopra (che il primo ministro non è un cliente qualsiasi) come un dato di fatto ovvio ed incontrovertibile. La cameriera era distratta, e si è poi scusata dicendo di non aver riconosciuto Mr. Cameron. L’idea che Mr. Cameron fosse, come appunto era, un cliente come tutti gli altri, non viene neppure presa in considerazione.

Il Giornale del Friuli recita: Nel suo primo giorno di vacanza con la moglie in Toscana, ieri Cameron è stato trattato alla pari di uno sconosciuto qualunque che entra in un bar ed ordina da bere.

Se poi qualcuno ritenesse seriamente che ad un primo ministro sia dovuto un trattamento speciale, avrebbe l’onere di illustrare i criteri che presiedono all’attribuzione degli onori sovrani. Vedrà presto – se esamina criticamente il principio – in quale pasticcio dialettico è andato ad impaludarsi! Tanto per fare un esempio, ricordo un fatto di cronaca degli anni Settanta, quando un gruppo di camerieri di un autogrill rifiutò di servire il pasto a Giorgio Almirante (spero che sia superfluo manifestare il mio radicale disaccordo sull’inconsulta azione). Vedete come ci può portare lontano la discrezionalità del servizio?

Tornando ancora a Montevarchi, amici che leggete, vorrei sottolineare che il servilismo ed il conformismo sono animali dalla pelle molto dura, sono straordinariamente diffusi in innumerevoli diverse sembianze e sono all’origine di molte catastrofi.

Il Re Sole è morto qualche secolo fa, ma i suoi cortigiani sono più prosperi che mai!

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Le parole per dirlo 2: sukha

 

Sukha: mi sono imbattuto per la prima volta in questa parola leggendo Plaidoyer pour le bonheur, il libro dello scienziato e monaco buddhista Matthieu Ricard del quale vi ho parlato.

È un termine sanscrito, che esprime uno dei concetti di base del Buddhismo. Non ha un corrispettivo in alcuna lingua occidentale, e viene a volte tradotto in italiano con felicità.

Indica uno stato di benessere profondo e stabile, che si riflette in ogni azione di chi lo possiede e gli permette di affrontare gli avvenimenti della vita – piacevoli e spiacevoli – senza esserne turbato.

Ho letto alcuni racconti dei prodigi di sukha nel libro di Ricard. Su alcuni ho fatto delle ricerche. Si tratta di storie che possono sembrare impossibili, e contengono inestimabili insegnamenti. Mi ripropongo di parlarvene.

Come vi ho fatto notare, non esiste un termine sanscrito che corrisponda ad emozione.

Sukha non è un’emozione. È, invece, uno stato contemporaneamente ed inscindibilmente emotivo e cognitivo. Implica una comprensione dei processi mentali, che di norma si acquista attraverso la pratica della meditazione. E qui torniamo all’errore di Cartesio… L’impossibilità di separare l’emozione dalla conoscenza, compresa in India duemilacinquecento anni fa, è una delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. I circuiti neurali della conoscenza e quelli delle emozioni sono strettamente interconnessi e non sono separabili. La nostra cultura è invece dominata dal dilemma “emozione o ragione”, come se si trattasse di concetti distinti e confliggenti, ed arriva talvolta a pretendere che ci siano delle norme matematiche per il comportamento razionale.

Sukha è quindi gioia e nello stesso tempo conoscenza. È un’interpretazione del mondo dalla quale nascono serenità e capacità di affrontare circostanze avverse. Solo la comprensione, non puramente concettuale ma profonda e vissuta, dei meccanismi della nostra mente ci permette di modificare il peso che attribuiamo a ciò che accade; e la felicità e l’infelicità non risiedono in quello che accade, ma nel modo in cui noi lo viviamo.

Sukha non è un ottimismo artificioso ed ingenuo che cerchi di mostrare le cose per quello che non sono. Al contrario, si fonda sul riconoscimento a viso aperto di ciò che effettivamente accade. Non comporta alcuna forzatura di insostenibili stati d’animo euforici.

Non pretendo certo, con questo piccolo articolo, di “spiegare il significato” di sukha, neppure il poco che ho creduto di comprenderne. Sto solo cercando di fornire a chi non ha avuto occasione di trovarlo finora un punto di accesso in un mondo sconfinato. In questa piccola parola confluiscono più di due millenni di riflessioni ed esperienze vissute. Io penso che che valga la pena di approfondirne la conoscenza, ed è quello che sto personalmente facendo. Capire questa parola non è però un atto intellettuale, ma un’esperienza.

Nella cultura occidentale abbiamo studiato molto l’angoscia, e grandissimi artisti l’hanno descritta e raccontata. Abbiamo più parole per raccontare l’angoscia che la felicità.

Non pensate che ampliare il nostro lessico su quel versante dell’esperienza umana sia una buona idea?

 

 

 

 

 

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Le parole per dirlo

 

Le parole che comprendiamo ed usiamo sono il prodotto della cultura nella quale viviamo, e sono a loro volta il mezzo, e contemporaneamente il limite, attraverso il quale la nostra cultura si perpetua.

Ogni lingua ha abbondanza di parole per alcuni argomenti ma ne è povera per altri; e questo rende rispettivamente agevole o difficoltoso il progredire della conoscenza di questi argomenti.

Avete mai provato a descrivere un odore? Se non è uno dei pochi che si riferiscono direttamente ad un oggetto comune, come, per esempio, l’odore del glicine, vi sarà molto difficile se non impossibile. Immaginate questo esperimento: entrate con un amico in una profumeria ed annusate diversi profumi, poi cercate di spiegargli le loro caratteristiche e differenze. Non ci riuscirete. Per qualche profumo potrete trovare qualche termine analogico o metaforico, dicendo che è fresco, intenso, acuto o cose del genere. Si tratta, evidentemente, di termini generici che non sanno indicare la nota specifica delle sensazioni. Se immaginate di proseguire l’esperimento per centinaia di profumi diversi, la resa sarà inevitabile.

La studiosa di odori Sissel Tolaas ha raccolto e catalogato 7800 essenze ed ha proposto la creazione di un apposito dizionario, il Nasalo, per denominare gli odori.

Se paragoniamo la situazione con quella dei colori, ci accorgiamo immediatamente dell’abissale differenza di disponibilità lessicale.

La nostra cultura si interessa poco agli odori e non ha creato termini specifici per differenziarli. Di conseguenza, ad ognuno di noi è difficile ragionare sugli odori ed approfondirne la conoscenza.

È facile non accorgersi di questi fenomeni se si vive acriticamente la cultura nella quale si è nati. Eppure, sono fenomeni che non si limitano certo alla definizione degli odori, ma entrano nella scienza, nella filosofia e nella visione della vita.

Questo è un punto che può portare ad incomprensioni e fraintendimenti quando si viene a contatto con culture lontane nel tempo o nello spazio.

Un aspetto di grande interesse del Buddhismo è la sua articolatissima concezione di… già, di che cosa? La prima parola che si presenta alla mente – e spesso alla carta – è “emozioni”. Emozioni negative e positive, quelle che producono sofferenza e quelle che la riducono.

Ogni studio serio e documentato dell’argomento, però, mette in guardia chi si si accinge ad affrontarlo. Gli stati mentali – ed anche questa locuzione è molto approssimativa – dei quali parla la psicologia buddhista non corrispondono alle nostre emozioni. Comprendono stati che noi chiameremmo cognitivi, vittime sempre del dualismo cartesiano che continuiamo a portare con noi. Viceversa, non esiste, ad esempio, una parola tibetana che possa tradurre “emozione”.

Ma questo non è che il primo gradino delle difficoltà.

Il punto è che il nostro lessico emozionale è straordinariamente povero ed ambiguo. Descrivere le emozioni non fa parte delle occupazioni dominanti della cultura occidentale. Comunicare sulle emozioni è un’impresa davvero ardua.

Penso che prendere coscienza di questi fenomeni sia essenziale per ampliare i nostri orizzonti oltre quello che ci viene quotidianamente proposto, e poter così trarre frutto da millenni di riflessioni ed esperienze che i nostri avi hanno sostanzialmente ignorato fino al secolo scorso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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