Uomini al volante

 

 

La vista degli uomini al volante mi riempie sempre di meraviglia.

Sembra che in loro operi un programma. Come tutti i programmi, anche questo ha diverse versioni ma la sua funzione è sempre la stessa: prendere di mira un altro uomo al volante, costruirsi un’immagine ed una logica secondo le quali è colpevole dei peggiori misfatti e soprattutto è stupido e sopraffattore, insultarlo, trionfare su di lui e proseguire vittorioso il proprio cammino di automobilista superiore.

Il colpo è costantemente in canna ed aspetta l’occasione propizia per essere sparato.

Non si cada nell’errore di pensare che il colpo venga sparato come conseguenza del comportamento degli altri combattenti! Avviene il contrario: il loro comportamento viene interpretato in modo tale da poter sparare.

Vi faccio un piccolo esempio. Un giorno dovevo uscire da un cancello ed immettermi su una strada trafficatissima, con una fila continua e quasi ferma. Nessuno mi lasciva entrare. A un certo momento si è creato un piccolo spazio tra un’auto e l’altra e sono avanzato di qualche decimetro, proponendo implicitamente chi seguiva di avere la cortesia di lasciarmi passare, dato che in base alle regole della precedenza sarei rimasto lì a tempo indeterminato. Ma chi seguiva aveva l’esigenza di metter mano al grilletto. Ha dato un colpo di acceleratore, ha allargato sgommando, mi è passato rabbiosamente davanti ed è andato a fermarsi, inchiodando per non tamponarlo, dietro all’auto che lo precedeva in fila. Con questa brillante manovra si è trovato davanti a me, guadagnando qualche metro nella fila; il che, tradotto in tempo ad una velocità di venti chilometri all’ora, non raggiunge un secondo. Ma quello che contava era non subire l’affronto che qualcuno gli sottraesse il suo posto, e trovare una ragione per classificare il sottoscritto in una delle categorie dal nome infamante che abitavano la sua mente…

Da parte mia, ho acquisito una filosofia completamente diversa, che rende più belle le mie giornate ed anche quelle degli altri.

Ho installato un programma anch’io. Questo cerca l’occasione per sorridere e per fare una gentilezza. In una situazione come quella che ho descritto poco fa, mi fermo e faccio passare chi si trova in difficoltà. Anche se ho la precedenza. Anche se perdo un secondo e, a dire la verità, anche se ne perdo di più. Non ritengo i miei secondi così preziosi. O meglio, li ritengo preziosi in quanto mi permettono di fare qualcosa che faccia star bene me stesso e gli altri, non di arrivare inutilmente a destinazione un minuto prima. Procedo cogliendo ogni occasione per abbellire le strade, deturpate dell’ostilità di chi usa il programma concorrente. Il mio ha un database che non contiene insulti, e da quando lo uso non ne ho mai sentito la mancanza.

Vi prego, però, di fare attenzione. Ho detto che mi piace essere gentile e aiutare chi è in difficoltà, non che mi piace dare spazio ai prepotenti. Non faccio strada a chi procede come se ne fosse il padrone. Ma non ho insulti neppure per lui. Mi limito ad andare per la mia strada, senza cedere alla prepotenza, e dentro di me mi auguro che l’infelice personaggio (sì, la prepotenza rende infelici, qualcuno non se ne è accorto?) possa ritornare sulla strada della ragione. E anche questo lo spero con un sorriso, anche se con molta fermezza.

Una delle caratteristiche deleterie del software dell’automobilista è che opera anche sui compagni di viaggio. Quando il guidatore parte con la lancia in resta suggerisce di sostenerlo e dargli ragione. Non sapevate che anche il software ha la sua solidarietà? Le convenzioni fanno sembrare quasi offensivo prendere le distanze da chi guida e non assecondarlo nelle sue epiche battaglie. Io penso invece che sia educato e doveroso. Solleticare l’ego infuriato di un compagno di viaggio non è, come dicevo ironicamente, solidarietà. È solo banale e dannosissimo conformismo.

Aver bisogno di aggredire gli altri in qualsiasi forma è segno di una grande miseria. Puntellare il proprio traballante ego a suon d’insulti (per non dir di peggio) non può in alcun modo darne un’immagine migliore, né a se stesso né agli altri. È solo una scorciatoia, banale fino alla noia, che si autoalimenta e rende tutti più infelici. Se i nostri rabbiosi automobilisti si fermassero non dico a meditare, ma almeno a riflettere, magari potrebbero cominciare a capire…

 

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Le parole per dirlo 4: lessico quotidiano

 

Veniamo al mondo in un luogo ed in un tempo che hanno il loro lessico, e la mappa di questo lessico indirizza non solo le nostre parole ma anche i nostri pensieri e le nostre azioni.

Facciamo una semplice analogia da un argomento diverso dal lessico: le cose che troviamo intorno a noi per strada. Se camminiamo per le vie di una città di questa Italia del 2017, che cosa vedremo? Tra le altre cose, molti negozi di abbigliamento, molti negozi di prodotti e servizi telefonici, molti centri di tatuaggi, molte centri scommesse, molte sale slot, molti estetisti. Troviamo normale che nelle nostre strade si trovi un centro scommesse ad ogni incrocio ed uno di tatuaggi ad ogni rettilineo. Troviamo normale che non ci siano luoghi dove raccogliersi in silenzio e meditare. Questi ci suonano come cose strane, che non riusciamo neppure a visualizzare con precisione. Troviamo normale che ci siano poche biblioteche. E troviamo naturale non leggere libri, non meditare ma farci tatuaggi, scommettere, consumare smartphone come tramezzini, taroccarci per apparire belli… Quello che finiamo per fare dipende da quello che troviamo l’opportunità di fare. Quello che non ci viene presentato, proposto e pubblicizzato dovremmo cercarlo di nostra iniziativa, ma questo lo facciamo solo se in qualche modo ce ne è venuta l’idea; e molte delle nostre idee provengono appunto da altri che girano per le nostre stesse strade.

Con le parole accade lo stesso. Troviamo intorno a noi, e quindi dentro di noi, un lessico molto fornito per descrivere abiti e smartphone, per descrivere il funzionamento di aziende e istituzioni, per descrivere fenomeni naturali e varie tecnologie. Troviamo, però, poche e stentate parole per descrivere i nostri stati mentali, il modo in cui entriamo in relazione con i nostri simili e dissimili, i fattori che ci rendono felici e infelici; e di queste poche parole la maggior parte riguardano stati mentali, interazioni e fenomeni che ci fanno soffrire. Quante volte non sappiamo dare un nome a quello che sentiamo, e rapidamente ne distogliamo lo sguardo finendo per non riconoscerlo!

Ho avuto occasione, recentemente, di sfogliare un testo di studio di una lingua straniera. C’è una sezione lessicale, con la terminologia che permette di trattare gli argomenti che servono ogni giorno, dalla famiglia allo sport, dalla casa alle vacanze. Ci sono dialoghi su ristoranti, acquisti, operazioni bancarie e quant’altro. Il problema di descrivere quello che sentiamo non si pone neppure. Non “serve”. Ci sembra logico che i manuali ignorino ciò che non è di immediata utilità, ma se ci si ferma a riflettere si capisce che non lo è affatto. Impariamo, nella nostra o in un’altra lingua, a usare sms e whatsapp. E poi, che cosa sappiamo scrivere con questi prodigiosi mezzi di comunicazione? Sembra a volte che le parole che usiamo per descrivere il modo in cui comunichiamo siano più di quelle che usiamo per comunicare qualcosa!

Per trattare il problema di come affrontare una scelta difficile, per ragionare sui valori in gioco e sulle nostre reali motivazioni ci mancano spesso le parole, le idee e la stessa volontà di fermarci a riflettere, cercare di capire ed accettare di poter modificare le nostre opinioni e i nostri comportamenti.

Per fare tutto questo bisogna aver imparato ad uscire dalla corrente, indifferenti a quelle che Gauss chiamava “grida dei beoti” (ma, dall’alto del suo genio, non aveva il coraggio di affrontare!), aver imparato che lo spirito del tempo non è la verità, aver imparato ad esplorare strade che qui ed oggi sono poco frequentate ma sono ricche di impronte, vecchie e recenti, dei più grandi uomini…

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